di Rock Reynolds
Può esserci in un luogo fisico un ordine apparente dietro cui si cela il caos dell’anima degli individui, una casa globale in cui la sofferenza si fa inquilina della quotidianità?
Lasciando più domande irrisolte che risposte banalizzanti – una scelta all’insegna della saggezza umana tanto quanto letteraria – Lara Fremder ci regala un romanzo accorato, L’ordine apparente delle cose (Gabriele Capelli Editore, pagg 167, euro 18) appunto, in cui le storie personali si intrecciano all’intrigante quadro millenario di un luogo, Gerusalemme, che davvero ha pochi eguali al mondo in quanto melange di lingue, culture, religioni e popoli.
Sembra che parlare di quella città e, soprattutto, di quella regione di cui è la perla più scintillante sia un dovere della contemporaneità. Eppure, Lara Fremder ci anticipa, con il garbo che la contraddistingue, di aver scritto il suo libro prima del 7 ottobre, ovvero prima che la routine degli ultimi 75 anni circa venisse sconvolta per sempre. E fa specie chiamarla routine, considerato il carico di sofferenze indicibili che si porta appresso fin dalla nascita dello stato di Israele, senza volerci spingere troppo addietro nel tempo.
Protagonista assoluta de L’ordine apparente delle cose non è, come potrebbe sembrare di primo acchito, Rachele Zwillig, la ragazza che per sfuggire a un carico di dolore personale annichilente – con il suicidio della madre e l’estraniamento del padre a fare da ombre principali di un’intera vita – sceglie di fare la guida turistica, soggetta alle bizze di un capo iracondo e alle richieste talvolta irrituali se non apertamente empie di viaggiatori che scambiano la Terra Santa per un centro commerciale. Eroina della storia è la stessa Gerusalemme, città misteriosa, fascinosa, mistica e, in qualche modo, infida, in cui da sempre convivono forze contrapposte, a testimonianza del fatto che, nonostante tutto, esiste ancora una possibilità di redenzione per l’umanità. Rachele si trova a suo agio nelle calli della città antica, sulla Spianata dei Templi, sul Monte degli Ulivi, nel Quartiere Armeno, ed è in costante dialogo con la sua coscienza, in una sorta di riproposizione quotidiana delle sedute con la psichiatra che l’ha aiutata a superare il trauma terribile del suicidio di sua madre. Quasi che in quella scelta di morire ci sia l’eredità di un popolo ora trasmessa sulle sue stanche spalle. Perché nessun ebreo può dirsi immune a quella maledizione che è stato l’Olocausto e che, comunque lo si guardi, ne ha ricombinato il DNA.
Rachele mente e sa di mentire quando racconta piccole, insignificanti bugie che diventano una sorta di autoterapia e che le consentono di intrigare i turisti al suo seguito così come di placare qualche suo demone. Perché, altrimenti, come dice a un certo momento, «Dove si trova la via di fuga se si resta bloccati nel tempo del dolore?».
Il resto, come in ogni buon romanzo che si rispetti, sarà il lettore a scoprirlo tra le sue molteplici pieghe. Nel frattempo, Lara Fremder ha risposto con generosità a qualche nostra domanda.
Davvero il 7 ottobre è stato la disintegrazione di un ordine apparente delle cose in una guerra in atto da 80 anni?
«Ho scritto il romanzo prima del 7 ottobre, prima che Hamas con indicibile ferocia, accendesse la miccia e scatenasse l’inferno. “È dura non perdere l’umanità quando te la tolgono però è proprio in quel momento che bisogna mantenerla”, così mi ha detto un amico nei giorni in cui Israele rispondeva a quel massacro compiendo crimini contro l’umanità. Grossman ha invitato gli israeliani a combattere per le strade. Esiste un dissenso in Israele, forse in quella società così lacerata comincia ad esserci maggiore consapevolezza. In quella terra vivono da secoli i palestinesi. A loro va restituita terra e dignità.»
La sua è una storia di sofferenza personale e di avventura. In fondo, un topos classico. Ce ne racconta la genesi?
«2019. Mi trovavo a Gerusalemme. Attraversando una sera uno dei grandi e poco illuminati corridoi dell’Hospice Austriaco – una costruzione ottocentesca che si affaccia sulla via Dolorosa – un uomo mi si avvicina e mi chiede: “Cattolica?”. Mi presi un secondo per rispondere, ma nel mentre l’uomo si era già dileguato. Raggiunsi la mia stanza e mi assicurai che fosse ben chiusa. La mattina seguente scoprii che era una guida e che formava i suoi gruppi a seconda della fede religiosa. Mi divertì molto quell’aspetto del lavoro e pensai di fare un documentario sulle guide della Città Vecchia. Poi ci fu il Covid e tutto si fermò. Fu allora che pensai a Rachele. Lei racconta una parte della mia vita che non avrei potuto narrare altrimenti.»
Ci racconta qualcosa della sua storia, per capire meglio com’è giunta a scrivere questo suo romanzo?
«Mio padre era ebreo, nato a Kaluszin, un piccolo villaggio non distante da Varsavia. Ci sono andata qualche anno fa: della sinagoga resta solo una targa. Da lì, nel 1942, furono deportati a Treblinka 2500 ebrei. Mio padre era già in Italia ma non sfuggì ai campi di internamento di Nereto e Ferramonti. Fu prigioniero dal 1940 al 1943. Mia madre era cattolica, quindi io non sono ebrea. Ci sono tante cose personali che mi hanno portato a scrivere L’ordine apparente delle cose. Posso aggiungere che Fremder in tedesco significa straniero, in yiddish estraneo. Quando lo scoprii, capii molte cose: era come se mi potessi collocare in quel limbo, fatto di estraneità, a cui sentivo di appartenere.»
La città di Gerusalemme esce dalle righe delle sue pagine come un personaggio a tutto tondo, una donna generosa e al tempo stesso severa. Viene ancor più voglia di visitarla. Cos’è che la affascina maggiormente?
«Non ho parole per spiegare. È un luogo struggente, che sento pieno di voci, di storie, di menzogne presenti e passate. Mi sono nutrita di quella città. Uno di quei luoghi che senti di conoscere, in cui potresti vivere e in breve tempo, forse, salutare le persone per strada.»
Se il suo romanzo lo scrivesse oggi, sarebbe diverso?
«Lei mi fa una domanda dolorosissima, perché oggi, quel romanzo, non lo potrei scrivere. Sarebbe impossibile. Rachele Zwillig la protagonista, sarebbe a disagio e io con lei, profondamente.»
Rachele fa la guida turistica, non certo la professione letteraria per eccellenza. È difficile visitare quei luoghi dimenticandosi che tutt’intorno c’è la guerra?
«Oggi quei luoghi non si visitano e non si visiteranno immagino per molto tempo, comunque sarebbe diverso. Ci si muoverebbe tra antiche e nuove rovine e per farlo ci vorrebbe molto rispetto.»
Da esponente in qualche modo del popolo ebreo, che sensazioni prova nel vedere l’esacerbazione e non l’attenuazione di un conflitto annoso?
«Io non sono un’esponente del popolo ebreo. Ma non significa nulla. Ho paura e infinita pena per il popolo palestinese, rabbia per le ingiustizie che ha sempre subito, dolore per quanto sta accadendo. Allo stesso tempo so che c’è una profonda lacerazione all’interno della società israeliana che deve affrontare la realtà, prendersi le sue responsabilità, fare i conti con il proprio passato e il proprio dolore se non vuole autodistruggersi. È questo ciò di cui parlo nel mio romanzo, della necessità di staccarsi dal passato senza doverlo dimenticare.»