La crisi della narrazione nell'era digitale: il potere delle storie umane
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La crisi della narrazione nell'era digitale: il potere delle storie umane

Byung-chul Han analizza l'impatto dell'eccesso d'informazioni e il declino delle narrazioni nel libro "La crisi della narrazione

La crisi della narrazione nell'era digitale: il potere delle storie umane
Byung-chul Han
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29 Aprile 2024 - 00.52


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di Antonio Salvati

Dobbiamo riconoscerlo. Siamo storditi dalla frenesia dell’informazione e della comunicazione. Siamo quotidianamente esposti a uno scambio veloce di informazioni che sfuggono al nostro controllo cosciente. Non solo. La comunicazione viene sempre più guidata dall’esterno e obbedisce a un procedimento meccanico, controllato da algoritmi. Un processo del quale non siamo pienamente consapevoli. La grossa mole di notizie ha preso, insomma, il posto delle storie. Dati e informazioni, frammentano il tempo, ci isolano e ci bloccano in un eterno presente, vuoto e privo di punti di riferimento. Siamo meglio informati rispetto ai decenni passati, ma privi di orientamento. In altri termini, la marea di informazioni che ci sommerge ha favorito la crisi della narrazione.

Sulla crisi della narrazione, sull’invasione di una quantità di informazioni difficili da gestire, da anni si interroga il filosofo di origine coreana Byung-chul Han, sviluppando preziose riflessioni per tutti coloro che hanno a cuore la qualità dell’informazione. Il suo ultimo volume, La crisi della narrazione. Informazione, politica e vita quotidiana (Einaudi 2024, pp. 120, € 13), si sofferma sul potere della narrazione e sugli effetti che ha sulla nostra società. Per Han nell’epoca digitale tardo-moderna nascondiamo la mancanza di senso della vita attraverso un incessante postare, mettere like, condividere. Il chiasso della comunicazione e dell’informazione «serve ad evitare che la nostra vita dinnanzi al proprio vuoto angosciante. L’attuale crisi non è racchiusa nella formula “vivere o raccontare”, ma nella formula “vivere o postare”». Di fronte al vuoto interiore, «l’io produce permanentemente sé stesso» e «i selfie riproducono il Sé nella sua forma vuota».

Dai classici della letteratura ai grandi filosofi di un tempo, la forma narrativa – per Han – è sempre stata in grado di farci comprendere il mondo, i suoi Dei, i nostri demoni e i confini dell’anima. I racconti sono stati e sono «il nostro punto di ancoraggio all’essere, ci hanno assegnato un luogo e grazie a essi il nostro essere-nel-mondo è stato un essere-a-casa, (…) hanno dato un senso, un sostegno e un orientamento alla vita». Mentre l’informazione «non ha in sé il concetto del futuro, non presuppone saggezza e mito», un’eredità umana che si è tramandata di generazione in generazione attraverso migliaia di leggende e storie orali e scritte. Percepiamo la realtà, «in primo luogo, in risposta alle, oppure attraverso le informazioni (…) ma l’immediata esperienza del presente viene distorta». Tutto si risolve nel “presto e subito”. L’informazione ci trattiene al presente, al momento, negandoci una narrazione che ci faccia intravedere un futuro. Anche per via della disfunzionalità intrinseca nell’utilizzo dei Social. Le piattaforme digitali come Twitter, Facebook, Instagram, Tik Tok non sono medium narrativi, ma medium informativi. Instagram ti invita a condividere Stories che hanno la durata di 24h, dando la sensazione di precarietà e dall’altra la subdola compulsione a postare sempre di più. Le informazioni l’una dietro l’altra non si condensano in un racconto. Le piattaforme digitali non sono interessate alla prassi narrativa, ma alla raccolta dei dati. Potremmo dire, «tanto meno viene raccontato, tanti più dati e informazioni vengono raccolti».

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La religione – per Han – è un caso esemplare di narrazione «con un momento di verità interno». Narrando essa spazza via la contingenza. La religione «cristiana è una metanarrazione che cattura ogni aspetto della vita e le dà un ancoraggio all’essere. Il tempo stesso viene caricato di aspetti narrativi». I cristiani che hanno riletto, riascoltato e meditato i Vangeli riescono a guardare più lontano di prima. «Quanto più vicino si guarda una parola e tanto più lontano essa guarda» – così scriveva un intellettuale austriaco di origine ebraica, che si opponeva al nazismo e alla logica del conflitto tra le due guerre mondiali, Karl Klaus. Perché – spiega Han – il senso transita nel racconto. Il senso delle cose che viviamo passa nel racconto. Non a caso, nel Messaggio per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali 2020, Papa Bergoglio ha affermato che l’uomo è l’essere tessuto di storie: «L’uomo non è solo l’unico essere che ha bisogno di abiti per coprire la propria vulnerabilità (cfr. Gen 3,21), ma è anche l’unico che ha bisogno di raccontarsi, di ‘rivestirsi’ di storie per custodire la propria vita. Non tessiamo solo abiti, ma anche racconti». Il Papa aggiunge che questa tessitura si prolunga nel corso della vita: «Non siamo nati compiuti, ma abbiamo bisogno di essere costantemente ‘tessuti’ e ‘ricamati’». Lo siamo grazie alle storie che ci attraversano e che ritessiamo incessantemente, «quando tessiamo di misericordia le trame dei nostri giorni». Quando questa tessitura si fa attraverso le storie della Bibbia e del Vangelo, il divino s’intesse con l’umano: «Dio si è personalmente intessuto nella nostra umanità, dandoci così un nuovo modo di tessere le nostre storie». Al di là dei riferimenti ai testi biblici, più laicamente per Bergoglio ciascuno di noi ha «bisogno di respirare la verità delle storie buone: storie che edifichino, non che distruggano; storie che aiutino a ritrovare le radici e la forza per andare avanti insieme. Nella confusione delle voci e dei messaggi che ci circondano, abbiamo bisogno di una narrazione umana, che ci parli di noi e del bello che ci abita». Chi narra si immerge nella vita e tesse al suo interno nuovi fili tra gli eventi. Tutto appare significativo e grazie alla narrazione – per Han – «che sfuggiamo alla contingenza del vivere».

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Per Byung-chul Han la quantità di informazione è collegata al mito della perfetta trasparenza dei mercati neoliberisti. E ha anche a che fare con il controllo sociale e con la gratificazione apparente che sembra offrire una vita vissuta più nel contesto dei media che nella “realtà”. L’era digitale è iniziata solo nel 2002. Da allora, la capacità di stoccaggio digitale ha ecceduto quella analogica. Oggi oltre il 95 per cento delle informazioni sono digitali, e ogni anno produciamo una quantità di dati superiore a quella accumulata in precedenza dall’inizio della nostra storia. Le immense masse di dati alimenteranno motori di classificazione. È l’uso dei dati conduce a classificare un numero sempre maggiore di individui, rafforzando le gerarchie di potere e aumentando le disuguaglianze. Questo spinge a un controllo dello Stato sul cittadino sempre maggiore, sia in Cina dove un regime autoritario di fatto è oggi in grado di controllare tutto dei propri cittadini, sia negli Stati Uniti dove profonde interconnessioni tra le big tech, il settore militare e gli enti governativi che lavorano per la sicurezza federale (CIA, FBI, ecc.) ha portato tradizionalmente la politica ad accordare condizioni di favore a queste corporate.

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Han si sofferma anche sugli effetti curativi della narrazione, in una società in cui il contatto è divenuto assente. Come avviene con i bambini piccoli, raccontare guarisce «poiché provoca un rilassamento profondo e riconduce a una fiducia originaria».

I contatti fisici hanno una forza curativa. Proprio come il raccontare storie, il contatto genera vicinanza. La crescente povertà di esperienze di contatto ci rende malati, generando isolamento, depressione e angoscia. Proprio la digitalizzazione genera la povertà di contatto e, paradossalmente, la connettività ci isola. Allora vivere è narrare. Ogni azione che avvia una trasformazione del mondo – spiega Han – una narrazione.

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