di Rock Reynolds
È un tema annoso e che resta scottante nella sua dolorosa attualità. È la polvere che si cerca di spazzare sotto lo zerbino del tempo, una vergogna per l’umanità intera e una macchia ancor più imbarazzante per quell’Europa che, sotto la spinta utilitaristica di un pensiero che la voleva in tutto e per tutto superiore al resto del mondo, lo ha colonizzato, lasciandosi alle spalle macerie ancora fumanti di variegata disperazione.
Tra tutti i continenti, quello più depauperato e abbandonato a se stesso è certamente l’Africa, se non altro per la sua stretta vicinanza, con secoli di sfruttamento fino a quando le principali potenze si sono accorte che i propri slanci coloniali non valeva più la pena compierli in loco: sarebbe bastato lasciare i propri protettorati in mano ad élite di loro preferenza che si sarebbero occupate di tenere a bada popoli assuefatti a una condizione di assoluta subalternità. Non si è, però, tenuto conto dei progressi nelle comunicazioni e negli spostamenti: oggi l’Europa e il suo stile di vita sono sullo schermo del telefonino – la ruota dell’uomo moderno e non, come vorrebbero insinuare certi benpensanti, un lusso occidentale – di miliardi di potenziali migranti e una bagnarola per attraversare il Mediterraneo o un camion-bestiame per un viaggio via terra sono alla portata praticamente di tutti.
Ma, come si diceva, la polvere è bene spazzarla sotto il tappetino della presentabilità. Peccato che la polvere sia testarda e tenda a posarsi dove meglio crede. Il classico zerbino in Europa, non solo in Italia, è rappresentato dai numerosi centri in cui, di fatto, alcune libertà individuali non vengono del tutto soppresse come in una condanna carceraria ma certamente soffocate e ridotte.
Paolo Boccagni, docente di Sociologia e Diversità e relazioni interculturali presso l’università di Trento, ha voluto calarsi nella realtà disperante di chi, come i migranti nei centri di accoglienza, non sa bene in quale limbo sia rimasta impastoiata la propria storia di vita. Dalle ore e ore trascorse in uno di questi anonimi centri, “ospite degli ospiti”, come si è autodefinito, ha raccolto ricordi e considerazioni poi condensati in un bel libro. Non esattamente un saggio universitario, ma decisamente un testo da leggere con attenzione. Vite Ferme (Il Mulino, pagg 266, euro 19) è un distillato di silenzi, prima, espressioni, gesti e parole, poi, non appena la barriera della conoscenza reciproca ha consentito a Boccagni di essere più di un semplice osservatore.
Le risposte alle domande che gli abbiamo posto sono propedeutiche a una lettura ancor più agevole del suo libro.
I migranti di cui lei parla nel suo libro sono confinati in una sorta di limbo, “costretti” a vivere in una casa che non è ufficialmente un carcere ma nemmeno un luogo libero. Come si può fare per rimettere il tema della libertà al centro del dibattito pubblico?
«Nel senso comune, l’accoglienza è una “nostra” gentile concessione, non un diritto che spetta a chi rischia la propria vita per chiedere asilo. Guai a lamentarsi degli standard dell’accoglienza o dei limiti posti alla libertà individuale. Al tempo stesso, qualsiasi forma di accoglienza comporta dei vincoli: finché non sei economicamente autonomo, ti tocca accettarli. La libertà, per come la intendono i protagonisti del libro, è qualche cosa che il centro (e il sistema d’accoglienza) non permette per definizione. Da ospiti nullatenenti di una struttura di accoglienza, non si può che sottostare alle sue regole, comprese quelle più infantilizzanti. L’alternativa, finché non si trova un lavoro, è solo vivere in strada. Rimettere il tema della libertà al centro, per migranti come quelli di Vite ferme, non ha però soltanto a che fare con il diritto di movimento, o tanto meno con la possibilità di fare quello che si vuole. Libertà, per le persone che ho conosciuto, vuol dire cominciare a fare quello per cui si è venuti fino a qui: lavorare, diventare autonomi, crescere come uomini e come parti attive delle famiglie da cui si proviene. Libertà, per i richiedenti asilo, vuol dire poter allargare un poco i confini del benessere, da cui la storia li ha esclusi. Libertà, per le politiche di accoglienza, dovrebbe voler dire accompagnare le persone e rafforzare le loro capacità, anziché lasciarle segregate nelle “bolle” dei centri, sino a nuovo avviso.»
Ha ancora senso, sempre che lo avesse prima, avere nel proprio ordinamento il reato di immigrazione clandestina?
«Direi di no. Ai tempi, tra l’altro, la norma aveva un potere simbolico, da legge-manifesto, che per fortuna è andato sbiadendo. L’allargamento dei canali della protezione internazionale, nell’ultimo decennio, ha modificato in parte i termini della clandestinità, spostandoli più avanti – a valle di un eventuale diniego definitivo – per chiunque abbia potuto fare domanda di asilo. A quel punto, tra l’altro, si scivola in uno stato di irregolarità, che è diverso. La clandestinità in senso stretto, come attraversamento delle frontiere non rilevato, è meno diffusa e visibile quanto più accessibile è il percorso dell’asilo (almeno per presentare la domanda). L’ostilità e lo stigma verso le persone migranti non sono certamente diminuite, ma il vocabolario della clandestinità, se non altro, ha perso un po’ di terreno e di mordente. Episodi come la visita di Papa Francesco a Lampedusa del 2013 e la consapevolezza (anche tra chi ha atteggiamenti ostili) che migliaia di persone muoiono in mare ogni anno hanno contribuito a spostare il focus dall’aggettivo “clandestini” al sostantivo “migranti”.»
Perché la bellissima parola “accoglienza” oggi fa così paura?
«Perché, secondo la narrazione politica predominante, sono troppi, sono troppo diversi, ma anche – altro stigma diffuso – sono “disperati”. La rappresentazione dei migranti come mere vittime non aiuta l’accoglienza perché deforma la realtà, al pari delle cifre inventate o della retorica ossessiva sulle differenze culturali, e non aiuta a lavorare su un terreno di diritti e doveri, competenze e corresponsabilità. Inoltre, l’accoglienza ha bisogno di risorse, saperi, investimenti. A forza di tagli di spesa e precarizzazione dei diritti, invece, diventa più difficile per tutti. È come una profezia che si autoavvera: non funziona, perché si sono create tutte le condizioni per non farla funzionare. Forse, un po’ fa paura, a qualcuno, anche perché rispecchia quello che ci si sente di essere: persone e comunità più povere, precarie, con meno futuro di prima.»
Lei dice a un certo punto che, quando un operatore dichiara “Vado nelle camere” è “come se stesse per addentrarsi in un mondo ontologicamente diverso. Perché?
«Gli operatori lavorano sotto lo stesso tetto dei richiedenti asilo, in spazi simili a quelli in cui loro abitano. Stanno vicini tutti i giorni, ma di solito rimangono dentro mondi paralleli. Un po’ per rispetto della vita privata e della riservatezza dei migranti, nella misura in cui un centro d’accoglienza lo consente. Un po’ perché i confini di ruolo ma anche di età, genere, classe sociale, lingua e cultura tendono a permanere nel tempo. Ci sono operatori e operatrici con più motivazioni, competenze ed esperienza che sanno come stemperarli, quando è il caso. Per altri, e con il tempo per la maggioranza, le stanze rimangono un mondo ignoto, diverso dal proprio. Se poi, negli anni, i tagli dell’accoglienza trasformano gli operatori in simil-portinai, non c’è più interesse né disponibilità ad addentrarsi in quel mondo… Basta che gli ospiti stiano al loro posto e rispettino le regole del gioco o facciano finta. Il risultato è che il centro, senza negare i suoi aspetti costrittivi o le difficoltà della convivenza, diventa molto meno conviviale di quello che avrebbe potuto essere.»
La struttura di cui lei parla è, immagino, simile a decine e decine di altre. Chi ci abita e lavora finisce per conoscersi. È una conoscenza che dentro quelle mura è preziosa ma che fuori non serve a nulla. Perché?
«Non serve a nulla in senso strumentale. Se una struttura di accoglienza non ti incoraggia anche a conoscere persone diverse da te (e magari con più risorse), aprendosi all’esterno, i legami costruiti con qualche compagno di residenza possono anche durare, ma da soli non basteranno. Fuori da qui, ognuno dovrà andare per la sua strada. E più persone diverse dal proprio gruppo avrà conosciuto nel frattempo, più la strada gli offrirà nuovi appigli.»
Lei dice che “Da fuori, il centro è quasi invisibile”. La scelta è voluta?
«È voluta la scelta di concentrare queste persone in edifici vecchi, non più adatti a ospiti più “titolati” o per generare profitto. È voluta, analogamente, la scelta di collocare queste persone ai margini della città, per renderle meno visibili e diminuire il loro impatto percepito nello spazio pubblico. Le due scelte – utilizzazione di spazi abitativi a “fine carriera” e di bassa visibilità – coniugano esigenze di risparmio e di consenso elettorale, e sono senz’altro volute dalle amministrazioni locali.»
Capita mai che qualcuno dall’esterno esprima la volontà di visitare il centro? E, nel caso succeda, è possibile farlo?
«In teoria, dovrebbe essere possibile, previa autorizzazione dall’ente gestore, per qualche giustificato motivo. Si potrebbe incontrare una certa diffidenza, però, che forse non è del tutto ingiustificata. Da un lato, nessuno ama essere ispezionato durante il lavoro che fa. Dall’altro, il centro isola la gente, ma per lo meno la protegge da sguardi che potrebbero essere indiscreti e poco rispettosi. Se un visitatore si presenta come volontario, ad esempio per tenere lezioni di italiano, dovrà raccordarsi con gli operatori. Servirebbe un certo impegno, non una presenza spot. Se venisse come giornalista, avrebbe bisogno di tempo, pazienza e delicatezza. Nel mio caso, le storie dei protagonisti delle stanze del libro sono nate da lunghi mesi di vicinanza, rispetto e silenzio, prima che arrivassero le parole. Forse la ragione più solida per visitare il centro sarebbe semplicemente da amico di uno degli ospiti. Negli ultimi anni, però, anche come effetto-strascico del Covid, ospitare persone da fuori è diventato pressoché impossibile. In breve: fino a che un ente gestore ha le risorse e le capacità per investire nel lavoro di comunità e nei rapporti con il territorio, visite e incontri reciproci hanno un senso. Quando questo non è più possibile, o desiderato, non ce l’hanno.»
Vite ferme o vite sospese?
«Sul piano giuridico, si tratta, in effetti, di vite sospese. Hai diritto a stare qui provvisoriamente, come richiedente asilo, ma non sai fino a quando e nemmeno quando sarà presa una decisione su di te. Protratto per anni, questo senso di sospensione ha un effetto deleterio e surreale. Pensate ai protagonisti di Attendendo Godot e sostituiteli con ragazzi africani che hanno un tetto sopra la testa, ma faticano a orientarsi fuori da quel posto – in aggiunta all’incertezza sul tempo – se la “accoglienza” a cui avrebbero diritto si riduce a un posto letto. Al tempo stesso, sono vite ferme, almeno provvisoriamente, e così ho voluto intitolare libro per restituire il punto di vista dei protagonisti: hai viaggiato tanto e hai rischiato tanto per lasciarti alle spalle una vita che ti sembrava ferma, senza futuro, senza possibilità di diventare adulto. Adesso, mentre ti chiamano migrante, ti ritrovi a essere più fermo di prima. Naturalmente, e per fortuna, non è l’ultima parola. Dà bene l’idea, però, di una cosa: il rischio degli anni passati in un centro di accoglienza è che senti che non stai andando da nessuna parte: non ti stai muovendo verso obiettivi come l’autonomia economica, la possibilità di mandare soldi a casa per prenderti cura dei familiari, il diventare una persona adulta o “normale” come tutte le altre, ovvero non penalizzata dal paese in cui sei nato o dal colore della tua pelle.»
Le va di raccontare un aneddoto interessante sull’interazione da lei avuta con uno degli ospiti di questa casa?
«Un giorno, mentre ci incrociamo fuori dal centro, Omokunrin mi saluta nel suo solito modo euforico, sfiorandomi la pancia con una mano. “Tua moglie è un’ottima cuoca!” Risata, pacca sulla spalla, poi ognuno per la sua strada. Nessun problema a rinfacciarmi, giocosamente, il mio visibile sovrappeso di mezza età. E tanti sottointesi interessanti, sui rapporti di genere – chi dovrebbe fare cosa, in casa – e soprattutto sull’importanza della forma fisica e della cura del corpo. Vale per tutti i ventenni, probabilmente, ma ancora di più per chi ha pochissimo controllo su tutto ciò che gli sta intorno. Prendersi costantemente cura del corpo (secondo i propri canoni estetici), badare alla propria forma fisica, non è un semplice modo di passare il tempo. È una forma essenziale di resistenza e di affermazione della propria dignità, a partire da quella piccola fetta di mondo – il tuo corpo – su cui hai ancora potere.»
Ci racconta la genesi del libro?
«Prima che il libro prendesse forma ci sono stati quattro anni di visite al centro, da “ospite degli ospiti”. Alla radice di tutto questo, due esigenze. Mi ero trovato a gestire un grosso progetto europeo, con molto lavoro organizzativo e poco tempo per stare sul campo. L’ingresso nel centro, grazie alla disponibilità delle associazioni sul territorio, si è tramutato in un’opportunità preziosa per fare ricerca vera, in un bagno di realtà. E poi, come tanti, avevo letto parecchio sui richiedenti asilo, ma approfondito poco “dal vivo”, soprattutto sul tempo grigio dell’attesa. È dentro gli spazi abitati del quotidiano, in luoghi di protezione e isolamento che racchiudono passati sofferti e silenziosi, che si possono coltivare relazioni, condividere abitudini, avvicinare mondi di vita invisibili e incomprensibili per chi sta fuori.»
Cosa potrebbe crescere e migliorare nella gestione dei migranti?
«L’auspicio, condiviso da tanti, è che prima o poi si consolidi una maggiore capacità di visione strategica, al netto delle scadenze elettorali e delle divisioni partitiche. Le modalità attuali di accoglienza tendono a essere inefficienti, prima ancora che residuali e discriminatorie. Si cerca di tagliare su tutto, contando sullo scarso potere rivendicativo dei migranti o di chi li rappresenta, e ci si illude che in questo modo si risparmi, si prevengano guerre tra poveri e, magari, si scoraggino nuovi arrivi. Nessuna di queste assunzioni regge alla prova dei fatti. Nel campo specifico dei migranti forzati e richiedenti asilo, che è ciò di cui parla il libro, i tagli dell’accoglienza operati dal 2018 in poi hanno solo prodotto un (esiguo) risparmio di spesa e qualche consenso politico in più, nel breve periodo. Nel medio-lungo periodo, producono solo maggiore povertà, emarginazione e rabbia sociale. D’altra parte, il dato che colpisce di più chi conosce l’accoglienza dall’interno non è né la povertà né l’emarginazione. Piuttosto, è la perdita di tempo, l’indifferenza per il vuoto di iniziative intorno a tanti richiedenti asilo, l’occasione mancata di utilizzare quel tempo vuoto per qualsiasi azione che rafforzi le future opportunità di vita di chi è arrivato qui e che renda la società più inclusiva e sicura, per tutti».