Il 18 maggio 1988, a 59 anni muore Enzo Tortora, conduttore televisivo, autore e giornalista, per un tumore ai polmoni. “Perché – disse – mi hanno fatto esplodere una bomba atomica dentro”. Quella bomba è l’accusa di far parte della Nuova Camorra Organizzata e di essere un corriere della droga. Ci vorranno quattro anni per dimostrare la sua innocenza, tra i quali 7 mesi di carcere e molti altri ai domiciliari nella sua casa in via Piatti, non lontana dal Duomo di Milano.
Nonostante siano passati molti anni dalla sua morte, Tortora è diventato la personificazione dell’errore giudiziario italiano. Il suo ricordo vive in strade, piazze, scuole, biblioteche sparse per l’Italia a lui intitolate.
Ma in più occasioni Silvia Tortora, la figlia maggiore, ha avuto modo di dire che “dal mio punto non è cambiato nulla: sono stati anni di amarezza e di disgusto”. Nulla per Silvia è cambiato nella giustizia italiana: “Mi aspettavo una riforma del sistema giudiziario, invece non è accaduto. I processi continuano all’infinito. Anzi in oltre trent’anni anni c’è stata una esplosione numerica”. Per non parlare della società: “Vedo dei passi indietro nelle disuguaglianze, l’essere una comunità non esiste più. Ci siamo incrudeliti ed assuefatti all’ingiustizia, c’è un generale imbarbarimento”. Ed anche la televisione è così lontana da quella realizzata dal genitore “improntata sul garbo, l’empatia e l’educazione. Vedo trasmissioni su casi giudiziari, dove non c’è mai un’ottica dubitativa”.
“Il sacrificio di Enzo” come lo chiama la figlia, comincia il 17 giugno 1983. Il volto di “Portobello” è all’apice del successo. La sua trasmissione raggiunge i 28 milioni di telespettatori, record difficilmente battuto. Quel giorno il conduttore avrebbe dovuto firmare il contratto per una nuova edizione. Alle 4 di notte, però, i carabinieri bussano alla stanza dell’Hotel Plaza di Roma, e lo arrestano. Per trasferirlo nel carcere di Regina Coeli i militari aspettano la mattina e cameramen e fotografi lo possono così riprendere con le manette ai polsi. Una immagine che dopo 30 anni è ancora indelebile per molti. Quel 17 giugno vengono eseguiti altri 855 ordini di cattura emessi dalla Procura di Napoli nei confronti di presunti affiliati alla nuova Camorra Organizzata, capitana da Raffaele Cutulo. A muovere le accuse contro il presentatore sono due ‘pentiti’ dell’organizzazione Pasquale Barra e Giovanni Pandico, poi a catena si aggiungono altri 17 testimoni che non solo confermano le accuse ma le coloriscono di particolari. Si scopre in seguito che pentiti e testimoni potevano liberamente comunicare mentre erano nella caserma di Napoli. Ad ‘inchiodare’ l’uomo di spettacolo è una agendina con il suo nome, in realtà vi era scritto Tortona e non Tortora, e dei centrini di seta inviati dal carcere dallo stesso Pandico a Portobello che i responsabili della trasmissione smarrirono. Centrini che nelle parole di alcuni pentiti diventano delle partite di droga.
Il 17 settembre 1985 il presentatore è condannato a 10 anni di reclusione per associazione a delinquere di tipo mafioso e traffico di stupefacenti. Nell’appello il 15 settembre 1986 altri giudici napoletani ribaltano la sentenza e lo assolvono con formula piena. Durante il primo processo viene eletto europarlamentare nelle file dei Radicali, diventa poi presidente del partito e quindi si dimette scatenando l’ira di Marco Pannella. Tortora torna a presentare il suo Portobello il 20 febbraio 1987 e apre la trasmissione con una frase che diventa celebre: “Dunque, dove eravamo rimasti?”. A mettere fine alla vicenda giudiziaria è la Cassazione che conferma il secondo grado di giudizio il 13 giugno 1987. Un anno prima della sua morte.
“Enzo è stato prelevato dalla sua vita – ricorda Silvia – senza che venisse aperta una commissione d’inchiesta, senza che nessuno pagasse per quell’errore”. Grazie al suo caso venne approvata la legge Vassalli sulla responsabilità dei magistrati, legge che però non contemplava la retroattività. Quindi né Tortora , né i suoi eredi hanno avuto un risarcimento. “Anche se penso che Enzo se ne sia andato troppo presto – conclude la figlia Silvia -, è meglio che non veda questo schifo. A cosa è servito il suo sacrificio? La potenza del dolore e dell’ingiustizia ha provocato un solo effetto: la sua morte”.