Per capire meglio la Palestina
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Per capire meglio la Palestina

The Passenger - Palestina raccoglie una serie di reportage talmente avvincenti, accorati e ben scritti da sembrare racconti, non fosse che ciò che contengono è la realtà drammatica di un paese fantasma

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27 Ottobre 2023 - 23.23


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di  Rock Reynolds

La guerra è da sempre la materializzazione somma del fallimento dell’umanità. A maggior ragione da quando, sulle ceneri del secondo conflitto mondiale, è nata una delle opere più ambiziose e nobili dell’uomo: l’Organizzazione delle Nazioni Unite. Di fronte allo scempio creato da un’ecatombe che davvero l’aveva portato sull’orlo di un abisso senza ritorno, il mondo si è dato un organismo che, nelle intenzioni iniziali, avrebbe dovuto vegliare sul comportamento dei suoi stessi abitanti per impedire il ripetersi di una simile vergogna. Sappiamo tutti quanto imperfetto e inefficiente si sia rivelato il sistema di controllo da esso gestito, ma non si può nemmeno negare che, nonostante i veti incrociati del Consiglio di Sicurezza, il suo organo più operativo, la semplice esistenza dell’ONU abbia evitato catastrofi addirittura peggiori, evocando se non altro in questo o in quel blocco la paura del giudizio globale.

La questione palestinese è certamente figlia di decisioni discutibili e, forse, pure affrettate, prese dalle Nazioni Unite. La scelta del 25 novembre 1947, ovvero l’approvazione di una risoluzione volta alla creazione di due stati indipendenti – con l’amministrazione ONU della città di Gerusalemme, sacra alle tre grandi religioni monoteiste e, in quanto tale, imprescindibile tanto per gli ebrei quanto per i musulmani – è decisamente uno dei momenti cardine di un processo di contrapposizione che si è esacerbato negli anni.

Districarsi tra le zone d’ombra della propaganda non è mai facile. La prima vittima della guerra, si sa, è sempre la verità. Proprio qualche ora fa, mi sono imbattuto in un dispaccio di una nota agenzia di stampa italiana che, in apertura della propria pagina web, riportava quanto segue:  «I commando di Hamas erano sotto effetto di una droga. Avevano pillole di Captagon, cocaina dei poveri».

Giornalismo non esattamente di ordine superiore. Prestarsi a riportare una notizia della TV israeliana come questa è indegno di un organo di stampa serio. Anche perché, a chi frega qualcosa se un miliziano o un soldato sono fatti di droga? È arcinoto che molti eserciti hanno “caricato” le proprie truppe a forza di stimolanti e che i soldati stessi impegolati in conflitti pesantissimi si sono dati ad alcol e droga per placare la tensione, spegnere la paura e trovare la forza per andare al massacro. Peraltro, in quel dispaccio si parla di “cocaina dei poveri”, a ulteriore spregio di un’inferiorità supposta di un popolo rispetto a un altro, persino nelle tossicodipendenze. Insomma, la coca dei ricchi a Israele, quella dei poveracci alla Palestina. Naturalmente, la propaganda può essere da entrambe le parti in causa.

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Ecco che a fare un minimo di chiarezza storica sulle ragioni del conflitto è un libro, anche se, in questo caso, non so nemmeno bene se definirlo tale o se chiamarlo rivista. Poco importa. Quello che conta è che The Passenger – Palestina (Iperborea, traduttori vari, pagg 192, euro 22) ha autenticamente il pregio di raccontare uno stato di assuefazione a due diverse propagande, ma soprattutto alla narrazione di chi, forte di una soverchiante superiorità economica, militare e mediatica, arriva dove l’avversario non potrà mai spingersi.

The Passenger – Palestina raccoglie una serie di reportage talmente avvincenti, accorati e ben scritti da sembrare racconti, non fosse che ciò che contengono è la realtà drammatica di un paese fantasma – di fatto quasi inesistente se non su una cartina geografica che, a partire dal 1946 a oggi, si è paurosamente ristretto – e l’aspirazione incrollabile della sua gente di vivere una normalità che le è vietata. La qualità migliore di The Passenger – Palestina è aver saputo coniugare la forza dirompente della scrittura e quella sognante delle fotografie che corredano ogni pezzo con statistiche e dati storici presentati in modo chiaro. Qualcuno potrebbe obiettare che anche i numeri si prestano alla propaganda, a seconda di come vengono snocciolati. Qualcun altro potrebbe sostenere che, prendendo per buone tali statistiche, si finirebbe per non essere “equidistanti”, termine che mi piace poco, soprattutto quando si parla di un popolo che ha subito umiliazioni quotidiane per anni.

Ma analizziamo alcuni dei numeri che The Passenger – Palestina ci presenta. L’età media della popolazione di Israele nel 2020 era giovane: 30,4 anni rispetto ai 46,5 della popolazione italiana; l’età media in Cisgiordania era 21,9 e nella striscia di Gaza 18! Nel 2021, i giovani non occupati e non scolarizzati in Palestina erano il 31,8 per cento, mentre in Israele erano il 16,8 per cento. La densità della popolazione all’interno della gabbia di Gaza è di 5753 abitanti per chilometro quadrato. Ho volutamente evitato di indicare la sproporzione nel numero dei palestinesi morti dallo scoppio del conflitto rispetto alla medesima statistica attinente agli israeliani.

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Ma passiamo dai numeri alle parole, che sono il punto di forza di questo volume. Come scrive Raja Shehadeh, scrittore e attivista di Ramallah, raccontando una camminata in un canyon avito in cui non può sostanzialmente più avventurarsi perché lo stato di Israele ha trasformato il territorio in una riserva naturale il cui accesso è consentito unicamente ai coloni ebrei, «La pratica religiosa nella terra della Bibbia tende a incoraggiare l’esclusione e la discriminazione piuttosto che l’amore e la generosità. Non c’è luogo come la Terra Santa capace di rendere cinica la religione». Shehadeh però sa che «Viene un tempo in cui si deve accettare la realtà… e trovare il modo di conviverci senza perdere la propria autostima e i propri principi». Immagino quanto sia difficile accettare di sottostare a continue privazioni e umiliazioni, come le ore interminabili di coda e i controlli snervanti a cui i pendolari di Gaza sono sottoposti quotidianamente al famigerato valico di Erez, quello, per intenderci, mostrato dalle immagini scattate con la body cam dai miliziani di Hamas al momento della sanguinosa incursione di sabato 7 ottobre. «Gli accordi di Oslo sono stati firmati, gli insediamenti non sono stati rimossi e la pace tanto attesa non si è realizzata.»

Amira Hass è una giornalista israeliana, corrispondente dai territori occupati, per conto del quotidiano progressista Haaretz. «Ogni palestinese» scrive, «vive sulla propria pelle la politica israeliana di frammentazione dello spazio dal momento in cui nasce e fino alla morte. Gli israeliani non se ne occupano… Una caratteristica tipicamente israeliana: giustificare qualunque cosa per ragioni di sicurezza o con una promessa divina scritta nella Torah, oppure con entrambe.» Di risoluzioni ONU che vietano gli insediamenti dei coloni israeliani nei territori assegnati allo stato fantasma della Palestina ce ne sono state tante, ma la politica dei governi di Tel Aviv che si sono succeduti negli anni non ne ha quasi tenuto conto. Certo, l’attuale coalizione di estrema destra presieduta da Benjamin Netanyahu ha esacerbato gli animi, con provocazioni aperte e con linee guida vessatorie: vedersi strappare la propria terra e la propria casa ed esserne allontanati per consentire a un colono di farle proprie è uno dei peggiori semi di discordia e odio che si possano spargere sul territorio. Come scrive la Hass, il messaggi trasmesso dallo stato di Israele con la sua politica di occupazione è «inequivocabile: i palestinesi sono superflui e non appartengono a questo luogo… La violenza che accompagna ogni nuovo insediamento era ed è come urina: un modo per marcare il territorio».

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L’uso da parte della stampa occidentale di termini apparentemente innocui come ostaggi invece che prigionieri e terroristi invece che miliziani approfondisce ulteriormente un solco che assume sempre più i contorni di un baratro. E, soprattutto nelle parole di Taiye Selasi, scrittrice e fotografa, quel tipo di messaggio non aiuta a creare un clima di cooperazione, peraltro rendendo l’isolamento culturale (oltre che pratico) della striscia di Gaza e della Cisgiordania ancor più difficile da spezzare. E sono le giovani generazioni e le donne a patire più di ogni altro il regresso a un islamismo sempre più fondamentalista in cui le frange meno inclini al dialogo prendono il sopravvento. Se Fatah si è dimostrata nel tempo poco credibile agli occhi del suo stesso popolo, favorendo così l’insorgenza e la salita al potere di movimenti più estremisti come Hamas, lo si deve anche all’incapacità dell’Occidente di farne davvero un suo interlocutore. Se oggi sono Hamas e la Jihad Islamica a farla da padroni – e, in effetti, spesso a tiranneggiare la popolazione – l’Occidente dovrebbe porsi qualche domanda. Israele, di certo, non se n’è preoccupato più di tanto, pensando di poter sfruttare a proprio vantaggio tale spaccatura interna e svegliandosi bruscamente il 7 ottobre nel mezzo di un incubo.

Umiliazioni, privazioni, senso indotto di inferiorità, aspirazioni soffocate, violenze striscianti o aperte sono la quotidianità per il popolo palestinese. The Passenger – Palestina ce lo racconta con garbo, senza mai rinunciare alla forza del sogno che la scrittura è ancora in grado di trasmettere. Una lettura illuminante e arricchente.

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