Israele: tra identità nazionale, democrazia e sfide estreme
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Israele: tra identità nazionale, democrazia e sfide estreme

Esplorando l'Israele contemporaneo, il libro affronta le tensioni tra democrazia, identità nazionale e complessità geopolitica, stimolando riflessioni profonde.

Israele: tra identità nazionale, democrazia e sfide estreme
Proteste contro Netanyahu
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21 Agosto 2023 - 11.25


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di Roberto Saliba

“L’ultimo azzardo di re Netanyahu”, Edizioni ETS, Euro 10,00, è un libro molto interessante di Enrico Catassi, Umberto De Giovannangeli e Alfredo De Girolamo sulle difficoltà in cui si trova Israele al tempo del sesto governo Netanyahu, quello segnato da ciò che gli autori e gran parte della stampa nazionale e internazionale chiamano la presenza decisiva di partiti dell’ “estrema destra”. Tanto che il sottotitolo è: “La democrazia in pericolo”.

Quando ci sono in gioco presenze governative “estreme” è quasi sempre così. Se tutto corre fino al punto conclusivo, dove si ricostruisce come le sfide in atto pongano un mutamento profondo rispetto all’indirizzo dato dal della patria Ben-Gurion, è all’inizio che il volume (senza l’intenzione di farlo) ci pone davanti ad una sorprendente ordinarietà di Israele, quando parla, con una acuta e lungimirante citazione di Roger Alpher, della spossatezza di Israele: “ La distruttività ci stanca, e ne siamo circondati. Il pensiero di emigrare ci stanca. Il pensiero di restare ci stanca. La sobrietà è noiosa. Meglio essere inebriati da Dio, o dalla follia, o dalla fede nei miracoli”.

Israele dunque è un Paese normale? Come ormai in gran parte del resto del mondo si pensa a emigrare davanti all’insostenibile presente, pensiero stancante come la circostante distruttività, come la fatica di restare, di confrontarsi con il fanatismo dilagante.

Questo punto colpisce: la normalità arriva sotto le vesti di insopportabilità del proprio presente? Sarebbe una faticosa conquista che forse non si voleva raggiungere, eppure guardando alle stanchezze degli americani davanti al possibile ritorno di Trump, degli europei davanti allo spettro di un futuro supersovranista, dei russi alla soglia del terzo puntinismo, degli africani davanti ai golpe a catena, degli arabi davanti alle insopprimibili dittature, Israele sembra aver trovato la sua normalità, con un governo che non sopporta e un futuro che teme. Eppure si è votato liberamente, a differenza di quanto accade in Russia, nel mondo arabo, in Africa.

La risposta a questo pensiero indotto da quanto si cita di Roger Alpher arriva con Sergio della Pergola: “Il vero problema è la lettura riduttiva della democrazia che dà questa maggioranza. La democrazia è intesa come dominio assoluto della maggioranza, senza quei meccanismi di equilibrio e controllo, oltre che di tutela delle minoranze, che caratterizzano le democrazie avanzate. Israele rischia dunque di degradare al livello di democrazia come la Turchia o l’Ungheria, dove esiste sì un Parlamento eletto con diversi partiti rappresentati, ma una persona al comando decide per tutti”.

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E’ il rischio che oggi molti in Israele temono per via della riforma della giustizia pensata, votata e giunta al suo snodo decisivo per l’urgenza di garantire l’impunità dei politici (e altro). E non è forse questo il nodo che sta al cuore degli incubi di molti americani per il ritorno possibile del trumpismo, o dei russi non putiniani per l’ingresso ormai in via di consumazione del terzo puntinismo, o degli europei alle prese con l’idea di un’Europa di sovranisti? E’ questa la normalità?

Il libro non parla di questo ovviamente, ma fa riflettere su cosa ci sia di più che problematico in Israele oggi, che poi è la crisi autoprodotta della democrazia. Un destino che, se fosse così, in questo modo spiegherebbe Israele come parte di un Occidente in crisi di identità. Anche questo non è oggetto del volume, attento a non mischiare mele e pere, ortaggi e bistecche. Ma la forza di questo viaggio nelle difficoltà israeliane sta nel farci pensare, nel condurci al punto di dover ritenere che gli autori ci volessero far riflettere anche su questo. E’ una crisi che mette in contatto mondi diversi tra di loro, come quelli definiti “occidentali”, e altri mondi, come quelli sub-sahariani e arabi. “Una destra populista e sovranista che nel suo vocabolario non contempla parole come ricerca di equilibrio, compromesso e democrazia liberale”.

Una recensione non deve riassumere un libro, ma stimolarne, se si ritiene, la lettura. Queste considerazioni indotte dalla lettura a mio avviso spiegano perché questo libro può interessare tutti, gli appassionati di Medio Oriente e anche i non troppo appassionati. Senza quella patina di ufficialità che sovente accompagna queste letture. Le chiavi interne ad Israele sono esposte con cura e attenzione, ma l’idea di una democrazia intestata alla maggioranza oggi riguarda tanti, e questo rende l’opera più fruibile, più interessante anche per palati attenti prioritariamente ad altro. Non può prescindere ovviamente dal domandarsi quale sia il fascino che ha reso Netanyahu un leader che sembra non conoscere il tramonto, come il sole nell’impero di Carlo V. C’è anche questo nel volume e nelle difficoltà della democrazia di Israele dove, come in Italia, si dice che in democrazia si dice ciò che si pensa. E cosa si dice in Israele al riguardo? Ecco un esempio, quanto si cita da Yossi Klein, scrittore che su Haaretz afferma: “il fascismo non è più una maledizione. Oggi si può dare del fascista a qualcuno e non si viene insultati”. E più avanti: “Umberto Eco ha definito il fascismo come una profonda affinità con la tradizione, una concezione del dissenso come tradimento, un’ossessione per la cospirazione e il culto dell’eroe e della morte”. Per lui c’è tutto questo nell’estrema destra di cui parlavamo. E non è il liberismo economico a legittimarlo democraticamente: “anche una teocrazia come l’iraniana concede uno spazio relativamente ampio alla libera impresa: anche i programmi dei Fratelli musulmani sunniti sostengono il laissez faire”.

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Ma basta questo paragone a far tremare? No, è la conclusione del ragionamento che spiega: “L’ecosistema necessario perché l’hi-tech israeliano continui ad avere successo, richiede molto più dei fondamentali dell’economia: ha bisogno di una società aperta, di libertà di pensiero, di idee e non di dogmi”. E’ il motivo per cui la libertà d’impresa iraniana non produce incantevoli risultati, ma questo si dice poco, pur essendo quella una grandissima civiltà.

Questa spinosa questione è tutta interna al complesso sviluppo o avviluppamento israeliano; poi c’è quella esterna, la questione palestinese. Non è una sola: è la questione dei palestinesi che vivono a Gaza, o in Cisgiordania, o nei confini d’Israele. La distinzione è evidente, come le problematiche che si pongono e che vengono illustrate nel dettaglio, coinvolgendo la tenuta dell’odierna relazione arabo-israeliana, modificata da una realtà già mutata e in profondo divenire. I recenti trattati di pace con importanti Paesi arabi reggeranno alla terapia del nuovo esecutivo? O i colloqui con l’Arabia Saudita produrranno ulteriori novità? E così si arriva al punto più importante, a mio avviso, per gli autori.

Chi è oggi Ben Gurion? E perché il Paese che lui  ha fondato non riesce ancora a darsi una costituzione? Il punto è enorme e forse non basta dire che si riassume nel chiarire se Israele è lo Stato degli ebrei o degli israeliani. Trovato in modo molto brusco come garantire che la maggioranza fosse ebraica, la scelta di farne lo Stato di tutti i suoi cittadini è rimasta a lungo nel limbo della pratica, per lo stesso motivo per cui dal fronte apposto non si riesce ad annettere la Cisgiordania e Gaza. Questa scelta obbligherebbe a ricorrere a soluzioni estreme o controproducenti.

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La questione Ben Gurion è stata la questione dell’eccezionalità di Israele, quando la sua comunità, gli ebrei polacchi, diede a Israele la sua identità: la natura socialista e i kibbutz, il premier in manica di camicia, solo nelle sedi ufficiali in giacca e cravatta. Solo quell’Israele poteva assicurare che un leader come Rabin si dimettesse perché sua moglie aveva aperto un conto corrente in dollari quando lui era ambasciatore negli Usa. Un dettaglio enorme per capire il percorso compiuto da Ben-Gurion a Netanyahu: se le ricche regalie ottenute da Bibi-premier a noi non sembrano motivo di grande scandalo, si capisce meglio cosa questo significhi per Israele dove il premier Rabin si dimise perché sua moglie aveva un conto in banca in dollari, e nessuno vi trovò regalie. Certo, il mondo cambia, ma i cambiamenti non sempre sono così trasparenti: ad esempio le dittature arabe, espellendo milioni di loro cittadini ebrei come reazione contro Israele,  hanno avviato a cambiamento profondo la popolazione e la cultura israeliana, un tempo socialiste. Il cambiamento è proseguito con il crollo dell’Urss, sulla carta Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, e le migrazione in povertà di milioni di ebrei russi. Si poteva restare come si era? Il passaggio da Ben-Gurion  all’intramontabile Bibi va letto anche con questo, per capire l’oggi. In questo, l’ultimo capitolo del libro offre gli strumenti per orientarsi e capire i termini della questione, interna e internazionale, religiosa e laica, aperta o chiusa.

Questo per me il passaggio chiave: “Nel dicembre 2014, durante le celebrazioni della 41esima ricorrenza della morte di David Ben-Gurion, avvenne un confronto teso tra, da un lato, Shimon Peres e Rueven Rivlin, al tempo rispettivamente ex ed attuale presidente, e dall’altro l’allora primo ministro Benjamin Netanyahu. I primi accusarono il secondo di andare contro i principi democratici di Israele. Il secondo si difese dicendo di seguire pedissequamente il messaggio del padre fondatore della patria.

Proprio sulla tomba di Ben-Gurion, luogo scelto non casualmente dai contendenti per il duello, si scontrarono pubblicamente la visione dello Stato-nazione ebraica avanzata da Netanyahu ( e poi approvata nell’estate del 2018) e la ferma contrarietà a tale proposta. Il dibattito aveva preso una piega mal digerita di Peres e Rivlin, che prefiguravano il rischio illiberale”. Gli autori non nascondono la vicinanza alla prima delle due tesi. Che ovviamente non sono le uniche.    

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