Cosa accomuna Socrate al king cobra Andrew Tate?
Top

Cosa accomuna Socrate al king cobra Andrew Tate?

di Monica Granchi - Il "magister" è una figura che sta scomparendo o mutando il proprio ruolo. Una piccola indagine che però è rivelatrice dei mutamenti. Ma andando oltre le dispute sui "maestri" che ne è stato degli insegnanti?

Cosa accomuna Socrate al king cobra Andrew Tate?
Lo scambio social tra Greta Thumberg e Andrew Tate
Preroll

Monica Granchi Modifica articolo

14 Febbraio 2023 - 11.59 Culture


ATF

di Monica Granchi

In principio era Socrate. Il maestro. Il filosofo alla ricerca della verità. L’uomo a cui la responsabilità civica imponeva il compito di far maturare intellettualmente le giovani generazioni. Capostipite di un metodo dialettico che ha fatto da ponte tra la classicità e i giorni nostri. Oggi, da un’indagine condotta tra gli studenti di una scuola secondaria di secondo grado, il podio di magister potrebbe spettare al king cobra Andrew Tate. L’influencer violento, misogino e razzista che si vanta con Greta Thumberg di possedere più di  trenta auto che producono enormi  emissioni.

Un’inevitabile evoluzione o una drastica inversione di tendenza? Cosa accomuna queste due figure poste  agli antipodi della storia?    

Magari un aggettivo.  Cattivo maestro, è stato detto più volte a proposito dell’ex kickboxer Tate. Ma anche Socrate, si sa,  ebbe le sue grane. E più di un detrattore. Discusso, criticato, odiato al punto di essere condannato a morte. Una parabola discendente culminata in un bicchiere di cicuta  che consegnò il filosofo della maieutica alla fama, quanto, o addirittura più, del suo pensiero. Non una resa, comunque. Semmai, la prova autentica e concreta di un insegnamento estremo, come lascia intendere Mauro Bonazzi nel suo Processo a Socrate. Di sicuro, un maestro difficile. Ma qualunque cosa pensiate dell’aggettivo, l’appellativo gli calza a pennello visto che lo stesso  Platone ebbe in lui il proprio mentore.

Secoli di storia e cultura ci separano dalle scuole ateniesi, ma le figure dei maestri hanno cavalcato il tempo  anticipando sempre  i nostri passi. Superando le fatidiche soglie del Duemila.

Con una evidente limitazione del concetto, e tuttavia senza forzatura, il primo che salta alla mente oggi, insieme alla nostalgia dei ricordi, è quasi sempre quello di scuola. Un ruolo che, accanto alla pratica dell’insegnamento, prolunga la cura genitoriale in un più ampio percorso di crescita.  

C’è quello del lavoro, sancito con decreto del Presidente della repubblica per accertati meriti di perizia, laboriosità e buona condotta morale. C’è quello sul podio, a cui orchestra e platea tributano il proprio rispetto riconoscendogli uno status conquistato con lo studio, la pratica e l’eccellenza delle capacità individuali. C’è quello spirituale, quello di vita, quello di arti marziali. Ce n’è uno che è frutto del puro talento e un altro che segna l’apice di un paziente percorso di apprendimento. Tutti accomunati da una stessa posizione, quella da cui si erge un certo tipo di superiorità; e da un imprescindibile rapporto di relazione con l’altro, il discepolo.

Come spiega Gustavo Zagrebelsky nel suo Mai più senza maestri, la parola magister è generata da magnus e magis a indicare qualcosa di grande, di superiore, appunto; un vocabolo che si addolcisce in quel  ter che sembra indicare alter, l’altro da sé che sempre presuppone il confronto e lo   scambio.

Come a dire che non esiste maestro senza una conoscenza maggiore, più ampia e più alta; né, tanto meno,   senza qualcuno che, da un passo arretrato,  sia disposto ad apprenderla facendola propria, magari rimaneggiandola. Perché la cultura è come l’acqua, prende la forma che gli dai.

Leggi anche:  Dopo la sanità la scuola: la destra definanzia quella pubblica e finanzia quella privata

La domanda su che fine abbiano fatto i primi si pone ormai ad ogni cambio di decennio, ad ogni giro di boa, ogni volta che una nuova generazione rimpiazza la precedente. 

Per molto tempo abbiamo cercato le parole dei maestri nei libri, tra le righe degli articoli di giornale,  nelle provocazioni sferrate dinnanzi a un pubblico qualche volta ignaro, ma sempre attento, di studenti. Dietro le cattedre delle università. Perché in un’aula, più che altrove, è possibile insegnare, condividere, consegnare ad altri ciò che, da più in alto, siamo in grado di vedere, toccare,  comprendere. Con l’intento esplicito di lasciarsi superare e, qualche volta, tradire. Maestri capaci di individuare e percorrere il cammino arduo della ricerca, qualche volta della sperimentazione,  di creare solide e durature scuole di pensiero, ma anche di intervenire incisivamente nel dibattito pubblico favorendo il cambiamento, capaci di smuovere le coscienze, di mostrare i benefici di un corretto uso del giudizio e del senso critico.

Ci va carattere, direbbe Paolo Conte. E pure un po’ di coraggio. La voglia o la volontà di alzare l’asticella per mostrare di meritarselo, quel gradino sopra tutti gli altri. Di essere di esempio. 

Quando mi sono iscritta all’università, non erano ancora scoccati gli anni Novanta. Per gli umanisti, come me, non c’era che da volgere lo sguardo. Non si era ancora spenta l’eco di Longhi,  Fortini, Argan, che già torreggiavano le figure  di Umberto Eco, Salvatore Settis, Antonio Tabucchi. Nella Fisica, i ragazzi di via Panisperna avevano aperto la strada al futuro premio Nobel Carlo Rubbia. E ovunque si levavano le autorevoli voci della scienza:  da Margherita Hack a  Umberto Veronesi.

Viene spontaneo chiedersi quali siano gli eredi di questa prestigiosa schiera di impavidi scalatori, soprattutto ora che le frane, che sgretolano il  terreno dell’impegno e della responsabilità civica, spingono gli individui a un’omologazione travestita da uguaglianza. Un inganno subdolo a cui è difficile sottrarsi.

Nuovi maestri sono al lavoro per arrestare il declino. Maestri ancora senza fama. Perché le maiuscole si vedono solo alla lente di ingrandimento del tempo.

Ad ogni modo, per capire davvero il fenomeno del cambiamento in atto, credo sia opportuno farsi qualche domanda sui discepoli. Ho idea che il sisma abbia il suo epicentro proprio lì, tra le fila degli studenti. Ho chiesto a un’amica, insegnante di matematica presso una scuola secondaria di secondo grado, di far compilare ai suoi ragazzi un piccolo questionario sulla funzione dei maestri,  e dove possibile, sulle figure che potessero prestarsi ad esempio. 

Il primo dato emerso da questa rapida indagine  mostra che il campione di adolescenti preso in esame non solo conosce  il significato della parola, ma  gli riconosce un valore umano costitutivo nella formazione dell’individuo e, molto spesso, un valore sociale.

Esperto, insegnante, mentore, persona competente che condivide le proprie conoscenze, che ti aiuta a migliorarti, che ha raggiunto il livello più elevato in una disciplina, che trasmette l’arte del  sapere a chi è inconsapevole della sua vastità, che comunica efficacemente informazioni che non si conoscono,  che illustra concetti che  possono essere d’aiuto nella scuola o nella vita, chi insegna le cose importanti  infondendo passione e curiosità.

Leggi anche:  Le ragazze hanno maggiori competenze digitali rispetto ai ragazzi  

L’impalcatura teorica regge. Lo scollamento, però, è dietro l’angolo. L’individuazione dei maestri in carne ed ossa è più insidiosa. E non di ossa e di carne è fatta la risposta. 

Numerosi sono i richiami ai genitori, questo è vero. Ma altrettanto numerosi sono i riferimenti a personaggi inventati, frutto della fantasia. Una  cosa che non deve necessariamente turbare in sé e per sé.

Chi di noi non ha trovato almeno  un maestro tra le pagine dei  classici della letteratura? Oggi quelle figure di riferimento sono tratte dai cartoni, dalle graphic novel o, più spesso, dai videogiochi. E’ comprensibile. Quello che colpisce, piuttosto, è che in molti abbiano riconosciuto la figura del maestro nei personaggi di  Oogway e  Shifu, protagonisti  di Kung Fu Panda, un cartone targato Dreams Works del 2008 diventato saga cinematografica.  Si tratta di due maestri di arti marziali; il primo, una tartaruga, più vecchio e più saggio, il secondo,  un panda rosso, abile guerriero. Accettato il patto tra chi insegna e chi impara, tra chi sta al di sopra e chi si trova ancora al di sotto, i ragazzi mutuano i loro riferimenti a oriente, come a marcare una distanza, un’estraneità dalla nostra cultura. Come se cercassero un orizzonte tutto loro; o magari solo una via diversa dalla nostra. Pur lontanissimi dai rigurgiti della new age, questi teenager scelgono maestri che affianchino alla speculazione teorica l’abilità pratica. Non solo fare, ma saper fare. Una disquisizione già aperta dalla filosofia classica e ancora attualissima. Che veleggia, però, in mare aperto.

Infine, assestano l’ultimo colpo, quello in grado di produrre macerie; le rovine di una cultura del merito e della ricerca dell’eccellenza che pare svanita nell’accostamento improprio di maestro e idolo. E anche nel modo facile,  qualche volta becero, in cui l’idolo, bel lontano dal dio, si manifesta. 

Perché se gli dèi sono irraggiungibili, questi idoli si possono acchiappare con un colpo di fortuna. Per primi arrivano gli esempi sportivi, in una carrellata che va da Shai Gilgeous Alexander a Rolando. Poi è la volta di Andrew Tate.

Il kickboxer. L’influencer  in custodia cautelare per permettere agli inquirenti di indagare su alcune ipotesi di reato  formulate   a suo carico, tra cui stupro e tratta di esseri umani. L’uomo che picchia le donne con la cinghia. Il modello a cui pare molti ragazzi aspirino.

Di lui, uno degli studenti ha scritto: è il maestro che mi ha iniziato al culto della ricchezza e della mondanità. Dopo questo, la citazione di  Aizen il manipolatore, un perfido  bastardo senza scrupoli preso in prestito dalla cultura dei manga, pare quasi senza importanza. La fascinazione del male è sempre esistita. Anche prima che Ciro l’immortale la facesse assurgere a dottrina.

Leggi anche:  Docente aggredita da una trentina di genitori nella scuola: trauma cranico per i colpi

Il male fa parte di noi, esplorarlo attraverso i personaggi ci consente di conoscerlo, di esprimerlo e di rimetterlo sotto chiave. Quando tutto va bene, si intende.

La cosa sconcertante è che i maestri siano scesi dai loro piedistalli per dire ai ragazzi che non esiste una distanza da colmare. Che non le qualità, lo studio o la disciplina, ma la fortuna e il caso possono ribaltare una vita. E che ogni mezzo è lecito. D’altra parte,  il nostro king cobra, quasi cinque milioni di follower, deve molta della sua fama all’espulsione dal Grande fratello

I nuovi dèi sono accessibili, imitabili, raggiungibili. Non si innalzano, si fanno notare. 

Emblemi di un panorama senza eccellenze in cui tutti si credono liberi di poter ambire a qualunque risultato. Per poi scoprire che l’ambizione è solo una, la stessa. Quasi sicuramente un’ambizione indotta.

Soldi. Successo. Donne, nel caso degli uomini. Obiettivi possibilmente facili. Un’idea di falsa democrazia in cui solo la mediocrità può veleggiare col vento in poppa dell’ignoranza.

In questo desolante scenario è inevitabile chiedersi quale ruolo potranno mai avere i nuovi maestri. Una riflessione ardua a cui anche gli atenei saranno chiamati a dare risposta. Magari superando finalmente la frattura del mancato reclutamento di docenti non più così giovani e ancora in attesa di ruolo.

Non credo ci si possa rassegnare, inerti, al triste volgere dei tempi. Ma forse sbaglio.

Forse si deve prendere atto che la funzione dei maestri si è esaurita, e, che magari gli ultimi si sono estinti con la glaciazione culturale;  una sorte analoga a quella toccata ai dinosauri.

Lo accetto. Le cose cambiano. Ma un dubbio più subdolo si insinua tra i miei pensieri. Qualche giorno fa sono andata a fare un controllo in ospedale, un ospedale universitario, per la precisione. 

Mammografia, ecografia, visita senologica: il salvifico iter della prevenzione. Da molti anni, ormai, al  seno sinistro ho  un fibroadenoma. L’ago aspirato ha confermato che non c’è di che allarmarsi. Però è lì. Mi è stato spiegato che  non  può semplicemente svanire. Come tutta la materia, non si distrugge.

La visita me l’ha fatta un giovane medico ancora in odore di specializzazione. Niente da obiettare.  Spesso, chi comincia mostra maggiore accuratezza, scrupolo… un carico di riguardo a compensazione di un’esperienza ancora non del tutto matura. Il dottore mi guarda e mi fa: Lei che dice? A lei sembra uguale? 

Lo chiede a me. Gira anche lo schermo dell’ecografo. Insiste. Io non sono sicuro… potrebbe essere lo stesso… o magari potrebbe essere un nodulo nuovo. Mi interroga ancora con gli occhi. La sua insicurezza ha bisogno di una conferma, una qualunque.

Meglio se va a fare un altro controllo tra un paio di mesi. Non si sa mai…. Me ne vado con un peso sul cuore e una domanda nella testa. Magari  la questione dei maestri è superata, ma  che ne è stato degli insegnanti?

Native

Articoli correlati