Alabiso: “All’estero il mio nome è nei libri di storia del cinema. In Italia non lavoriamo sulle memoria”
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Alabiso: “All’estero il mio nome è nei libri di storia del cinema. In Italia non lavoriamo sulle memoria”

Il montatore di Sergio Leone e di una lunga schiera di grandi registi italiani si racconta con ironia, tra ricordi, piaceri e dispiaceri della sua professione

Alabiso: “All’estero il mio nome è nei libri di storia del cinema. In Italia non lavoriamo sulle memoria”
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Giuseppe Costigliola Modifica articolo

13 Giugno 2022 - 14.22


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Intervistare Eugenio Alabiso è un’esperienza esaltante. 84 anni portati ottimamente, voce pacata e sorniona mimetizzata in un personaggio vulcanico, uno dei maggiori montatori viventi con all’attivo oltre 150 film, Eugenio mi accoglie nella sua casa romana con queste parole: “Io sono uno alla mano, e mi piace subito entrare in conversazione. Per me l’intervista è un vagare da un argomento all’altro, invece di intavolare un discorso ingessato mi piace spaziare, navigare. Parliamo un po’ di tutto, a braccio, come piace a me, così non esce fuori il solito raccontino”. Ottimo, penso, mentre lo sguardo mi va su due grandi quadri dai colori chiassosi affiancati su una parete del soggiorno, che ritraggono Orson Welles e Gandhi. “Ti piacciono? Li ha fatti Pacheco, lo sai chi era?” Veramente no. “Era il medico personale di Cassius Clay, quello che gli diagnosticò il Parkinson. Si dilettava a fare ritratti di grandi personaggi pubblici. Nel 2007 negli USA emisero un francobollo con questo quadro di Gandhi. Pacheco l’ho conosciuto a Miami, quando andavo per i film di mio fratello Salvatore, grande produttore cinematografico. Be’, ho anche una foto con dedica di Marvin Hagler, con lui c’ho fatto un film”. Quale? “Potenza virtuale, l’ultimo film di Antonio Margheriti, con lui e Terence Hill”. Mi mostra “una cosa bellissima”: la foto del figlio Fabio con Hagler the Marvelous, e chiosa: Nel dialogare così escono fuori delle cose che fanno parte della vita, con piacere o dispiacere”.

Partiamo dai dispiaceri.

Be’, qui in Italia organizzano festival e convegni su Sergio Leone e a me non mi chiamano mai. Io non sono né ruffiano, né politico. Però mi hanno chiamato dalla Spagna, per il cinquantenario di Il buono, il brutto e il cattivo. A Salas des Los Infantes, nella provincia di Burgos, hanno organizzato una festa di cinque giorni, hanno ricostruito il cimitero del film, Sad Hill, con la celebre scena del Triello. E tra le tombe, c’è anche la mia”. Mi mostra la foto, ironica come il personaggio che ritrae, con la scritta “Sto meglio sopra”. Poi mi allunga una mail: “Mi hanno contattato dall’Ungheria, mi vogliono dedicare delle pagine sui libri del cinema con i personaggi di Terence Hill e Bud Spencer. Te ne racconto un’altra. Stavo facendo non so che film, incontro un ragazzo inglese e nel parlare gli ho detto che avevo montato un film di Sergio Martino, I corpi presentano tracce di violenza carnale. Non puoi capì questo: m’ha abbracciato, m’ha dato pure una copia del film, m’ha detto: “Non c’è Dario Argento che tenga”. Cioè, certi riconoscimenti vengono dall’estero, non da noi, e te rode il culo!” A conferma di ciò, prende un libro tedesco su Sergio Leone e su di lui, e aggiunge: “Gli stranieri ricordano, lavorano sulla memoria, la recuperano, e gli italiani no. Strano, eh? Non ci s’inculano proprio!”

Altri sassolini nelle scarpe?                                 

“Be’, anche con Verdone. L’altr’anno al cinema Trevi [di Roma] ha parlato di Un sacco bello, ricordando come Leone gli disse che poteva scegliere cast e troupe di suo gradimento, ma due persone gliele imponeva lui: Ennio Morricone ed Eugenio Alabiso. Dovevo fare pure il suo secondo film, Bianco rosso e Verdone, eravamo già d’accordo, ma Nino Baragli è andato da Leone e gli ha chiesto di affidare il montaggio a lui. Io ero troppo impegnato con altri lavori per andare a dire a Sergio: ‘Oh, ma che hai fatto?’”

Come hai cominciato il lavoro da montatore?

“Facevo le medie, andavo a Cinecittà nel periodo estivo, grazie a mio fratello Daniele, era l’assistente di Roberto Cinquini, grande montatore e splendida persona, e mi guadagnavo qualcosa numerando le pellicole. Lavoravo con Mario Mattoli, ai film di Totò, che ho conosciuto. Mattoli era troppo forte, andavamo a pesca, io avevo un grosso retone per prendere i pesci. Una volta lo ritiro bello pieno, e la voce di Mattoli dietro di me: ‘Eugenio quanti sono?’ ‘Sedici bis’. ‘Bene, allora prendili’. Se dicevo 17 non me li faceva prendere. Nel 1960, finito il militare, Cinquini mi propose di fargli da assistente al montaggio. Mi faceva montare i suoi film, per esempio montai Le ore dell’amore, lui lo supervisionò e ne fu entusiasta. Mi chiamò davanti a Luciano Salce, il regista, e mi disse di spiegargli perché avevo montato in un certo modo delle sequenze. Io, tutto rosso, pensavo: ma che gli è andato a dire, che l’ho montato io? Be’, gli ho spiegato il motivo di quel montaggio, e Salce fa: ‘A Robe’, c’hai ragione, è proprio bravo’. Ma la grande occasione l’ho avuta con Per qualche dollaro in più. Doveva farlo Cinquini, io ero l’assistente, senonché, appena iniziano a girare Cinquini muore. Leone, che voleva sempre il meglio, chiama Serandrei, grande montatore, ma era un intellettuale, c’aveva poco a che fare con quel genere di film. Una sera viene Leone e mi chiede di mostrargli il montato di Serandrei. Be’, non ho mai visto Sergio disperato in quel modo. Perché in quel film, nella fuga di Volonté dal carcere, nella sparatoria con i soldati, si vedevano tutte le scintille delle armi da fuoco, si vedeva che erano colpi a salve. Gli faccio: ‘A Se’, fammi un favore, vattene a casa, dormi, me ne frego di Serandrei, ci metto le mani io, e domani mattina te lo vieni a vedere’. La mattina è venuto, non c’era più una scintilla, le avevo tagliate nel campo e controcampo, un giochetto semplice. Al che Leone telefona in produzione e manda via Serandrei. Pensa che soddisfazione”.

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Poi hai montato insieme a Nino Baragli Il Buono, il brutto e il cattivo.

“Sì, lì sono andato in Spagna. Stavo a Madrid, al Dottor Fleming, vicino allo stadio Bernabeu, c’era uno stabilimento con una moviola, un assistente spagnolo, preparavamo il materiale, ordinavamo i giornalieri, poi raggiungevo Leone lì dove stava girando, e glieli facevo visionare. Quanti ricordi! Guarda”, mi mostra una foto di sua figlia bambina in braccio a Clint Eastwood, “una volta, con mia moglie e mia figlia Tiziana entriamo in un ristorante e troviamo Eli Wallach che aveva rimorchiato una bottarella. Tiziana era tremenda, vede Wallach e grida: ‘Ciao nonno!’ Invece so che Lee van Cliff durante il tragitto che faceva per andare sul set si scolava parecchia birra”.

Una sequenza montata da te che ricordi con particolare soddisfazione?

“La più bella sequenza che ho montato è ‘L’estasi dell’oro’ di Il buono, il brutto e il cattivo. La scena del cimitero, dove si sente di più la musica di Ennio Morricone. Al ricordo mi fa ancora uscire una lacrima. Me la immagino sempre, sento i passi nel corridoio di Sergio Leone che veniva da me, le chiavi che tintinnavano – c’aveva il vizio delle chiavi –, lui che entrava e mi diceva: ‘Come va?’ Insomma, è uscita una bella sequenza. Pensa che di tutto il finale, il ‘Triello’ l’ha montato Nino, tutto il resto, che è tanto, l’ho montato io”.

Avevi uno stile particolare nel montaggio?

Lo stile te lo dà il film. Diciamo che a me piaceva rubare i tempi allo spettatore. Parecchie volte capita che lo spettatore ti anticipa quello che gli vuoi raccontare. Guai che sia così. Se lo spettatore ti anticipa è sbagliata la regia e il montaggio. Lo devi sorprendere. Il mio montaggio era talmente serrato che ti bevevi tutto il film, e solo alla fine dicevi: “Ammazza che stronzata!” Io però te l’ho fatto vedere tutto. Diciamo che avevo delle stranezze di montaggio, nell’alternare le sequenze, i vari spezzoni, arrivavo meglio sullo spettatore.

Come hai conosciuto Sergio Corbucci, del quale hai montato molti film?

“Con Il Mercenario, un film bellissimo, con un duello finale nell’arena con uno splendido pezzo di Morricone, intitolato ‘L’arena’. Grimaldi, il produttore, stabilì che dovevo montarlo io. Corbucci parte per la Spagna, poi a un certo punto telefona alla Pea all’avvocato Grimaldi, e gli dice: ‘Allora, Eugenio monta quella sequenza come gli dico io, viene in Spagna e me la fa vedere, se va bene si monta il film, se no se ne ritorna a casa’. Non puoi sapere com’era quella sequenza, un montaggio serratissimo, sparatorie, un casino da rincoglionire. Io mi sono messo lì, l’ho montato, sono andato a Madrid alla Fotofilm, caricano, proiettano, c’era pure Franco Nero, s’accende la luce, Corbucci si alza e mi dice: ‘Monterai tutti i miei film’. Infatti con lui ne ho fatti sedici. Lui aveva lavorato con Baragli, con Fraticelli, con tutti i migliori montatori”.

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Com’era il tuo rapporto con Morricone, con gli autori delle colonne sonore?

Si alza, prende un disco e me lo mostra: è la colonna sonora di Il buono, il brutto e il cattivo, con una dedica autografa di Morricone: ‘Per Eugenio, con stima e amicizia, e con la speranza di lavorare spesso insieme ma scrivendo un po’ di musica’. “Lo sai perché ha scritto così? Diceva che montavo i film troppo serrati. Certe volte s’incazzava perché nel fare la musica già si trovava i sincroni. Abbiamo lavorato a lungo, fianco a fianco, era un professionista assoluto, una gran persona. Poi ho lavorato con Rustichelli, Ortolani, Donaggio, gli Oliver Onions, i Fratelli La Bionda, Luttazzi, Detto Mariano. Il montatore ha un rapporto importante con il musicista, ha un’importanza fondamentale nel cinema”.

In generale, avevi discrezionalità nel montaggio o i registi imponevano le loro scelte?

“Dipendeva dal regista. Io ero un montatore a cui piaceva lavorare da solo. Michele Lupo, un regista che ho amato, mi diceva: ‘Euge’, mentre monti io sto qui, mi faccio le parole crociate, non ti voglio disturbare’. Significa che al montaggio riuscivi a dargli qualche cosa. Anche Sergio Leone mi lasciava fare, dopo veniva e faceva le sue scelte, però di primo impatto ti lasciava libero. Corbucci mi rompeva un po’, ma in finale andava bene anche con lui. Sai, quando riuscivi a instaurare un rapporto di fiducia col regista, era fatta. Per esempio, nel film Er più, la scena delle coltellate di Celentano, gli dissi, ‘A Se’, me sembra un balletto. Ci vuole un po’ più di cattiveria nelle coltellate’, e lui: ‘Va bene così’. Be’, non gli potevo fare una prepotenza, il regista era lui. Pochi giorni prima di Ferragosto visioniamo il film, avevo prenotato per la Sardegna, e adesso a Corbucci quella scena non piace, mi dice di rimontarla come volevo io. Sai cosa significava? Tagliuzzare tutto, risistemare le sincronizzazioni, un macello. Be’, io ero un capoccione, se non ottenevo ciò che volevo, lavoravo il regista ai fianchi. Non è che volevo avere per forza ragione io, ma in certe cose nel giudizio c’è l’evidenza, non posso scrivere uno più uno tre”.

E Umberto Lenzi? Anche lui ti lasciava fare?

“Lo sai come mi chiamava? Il domatore. Perché portavo delle giacche un po’ da circo equestre, rosse, azzurre. Con Lenzi siamo diventati amici fraterni, a parte una discussione idiota per il suo ultimo film. Io comunque andavo d’accordo con tutti. Con qualcuno c’ho litigato, per esempio con Sollima, e con Tonino Valerii. Mentre monto Il mio nome è nessuno, Valerii comincia a fare storie. Gli dico: ‘Toni’, fammi andare avanti, poi alla fine lo giudichi’. E lui niente, non gli andava bene come stavo lavorando. Finché non sono andato da Leone: ‘Sergio, mi devi fare una cortesia. Io ti faccio tutto il montaggio, ma mandami via Tonino Valerii’. E l’ha mandato via. Poi c’è chi mi ha dato del pazzo: Giorgio Ferroni. Stavamo facendo La battaglia di El Alamein, gli dicevo, ‘Guarda se lo monti così e così ci sputano in faccia’. Aveva girato con due macchine, dei carri armati che vengono avanti, visti da un fortino, ma erano riprese che non potevo usare, non c’era sequenza logica negli spari. E lui: ‘Le devi usare’. E io: ‘Le vedi le presse, per le giunte delle pellicole? Corri il rischio che una te la spacco in testa’. Insomma, mi stava facendo usci’ matto. Se n’è scappato nei corridoi urlando: ‘Mandate via il matto!’ Alla fine gliele ho montate come diceva lui. Andiamo in proiezione, alla Titanus, parlo con Goffredo Lombardo, il grande produttore, gli faccio: ‘Senti, quando hai visto il film, qualsiasi critica falla al montatore’. Finisce il film: ‘Ma come cazzo è stato montato questo film!’, sbotta Lombardo. ‘L’ho montato io’ rispondo. ‘Ma come, dicono che sei tanto bravo’. ‘Per il volere del regista’. E Lombardo: ‘È vero Ferro’? Ferroni?’ S’era acquattato sotto la sedia. Perché sai, certi registi davanti ai produttori diventano delle pecore. E Lombardo gli fa: ‘Va bene, adesso ti fai un giro e lasci Eugenio da solo a montare il film’. Be’, io prima di sfasciare il mio lavoro mi ero fatto dei controtipi, delle copie. E Lombardo mi chiede: Quando lo posso rivedere?’ ‘Domani’. È rimasto a bocca aperta”.

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Hai montato i thriller e i polizieschi di Sergio Martino, sceneggiati dal grande Ernesto Gastaldi, dove il ritmo è tutto. Cosa ricordi di quei film?

“Sai, io ho sempre pensato al pubblico. Se ci pensi bene, la regia, la musica, ecc., è tutta rivolta al pubblico: perché non dev’esserlo il montaggio? Con Sergio Martino mi trovavo bene a lavorare, mi dava mano libera. Infatti, quando qualche volta non lavorava con me, non vedeva l’ora che tornassimo a lavorare insieme. Una buona parte del valore e successo i suoi film gialli thriller lo devono al montaggio. Sergio mi vuole un gran bene, lo sento sempre, però non ha speso mai ’na parola per me”.

E i tuoi rapporti con gli attori? So che sei rimasto molto amico di Terence Hill. E con gli altri?

“Con Terence mi sento sempre. Ho fatto un sacco di film con lui e Bud Spencer. Quando Terence ha fatto la serie televisiva Lucky Luke, nove episodi, gli ho dato un grande consiglio, di allungare un episodio per farci un film. Gli ho suggerito le scene da girare, mezz’ora di girato, lui mi chiamava sul set, mi chiedeva: ‘Mi vieni a girare?’ È venuto un film di un’ora e mezzo, è uscito nelle sale, ha avuto successo all’estero. Ma non mi è stato molto riconoscente. Comunque, con la maggior parte degli attori erano conoscenze superficiali. Li vedevi quando si andava alle prime dei film, ti facevano i complimenti, e finiva lì. Banfi, ogni volta che mi vedeva, mi chiamava Alabisolo”.

Qual è stato l’ultimo tuo lavoro?

“A parte delle stronzate erotiche, l’Allenatore nel pallone 2, nel 2008. Prima avevo fatto Pane nudo, un film di un regista algerino, che mi è valso anche un premio, al Baff di Busto Arsizio”.

I film che ricordi con più affetto?

“I film di Leone, Il mercenario, Er più, Il bestione, i film di Sergio Martino, in particolare Spogliamoci così senza pudor, c’è l’episodio di Dorelli col morto al piano di sopra, be’, con mia moglie ce lo siamo visti un sacco di volte e sempre con immutato piacere. Tutti bravi”.

Lo segui il cinema di oggi?

“No. Lo sento lontano, falso. Non mi appassiona”.

Hai dei rimpianti sul piano professionale?

“Sì. Quello di non aver potuto firmare Il mio nome è nessuno. Sergio Leone mi chiamò e mi invitò a pranzo in una trattoria sull’Appia Antica. Mi disse: ‘Eugenio, poiché Baragli è impegnato devi dare una mano a Tonino Valerii, devi aiutarlo a terminare il film’. In realtà l’ho montato per una buona metà, ma non l’ho potuto firmare perché mi pagarono in nero. Peccato, lo avrei firmato volentieri, è un film bellissimo”.

Tra un ricordo e un altro, è ora di andare. Eugenio mi accompagna alla porta, il viso soddisfatto e disteso. “Tu sei il mio montatore” mi saluta. Lo ringrazio, con la promessa che tornerò a trovarlo. Chissà se sarò bravo come lui, mi dico, pensando ai racconti torrenziali di cui mi ha fatto partecipe da montare in un paio di paginette.

Di recente Eugenio è stato colto da un grave lutto, per la perdita del figlio. A Fabio è dedicata questa intervista.

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