"Destinazione non umana": la regista Valentina Esposito e la compagnia "Fact" emozionano il pubblico
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"Destinazione non umana": la regista Valentina Esposito e la compagnia "Fact" emozionano il pubblico

Un testo potente che parla di umanità nella sua forma oscurata, di avidità, di invidia, di inferno, di sofferenza, di malattia, di precarietà. Di tutte quelle tragedie che ci fanno sentire impotenti davanti a un destino che percepiamo deciso da altri

"Destinazione non umana": la regista Valentina Esposito e la compagnia "Fact" emozionano il pubblico
"Destinazione non umana"
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1 Marzo 2022 - 16.31


ATF

di Alessia de Antoniis
Il teatro India di Roma ha ospitato il nuovo lavoro di Valentina Esposito e della compagnia FACT, Fort Apache Cinema Teatro. Dopo il successo ottenuto con “Famiglia”, il gruppo di attori ed ex detenuti formatisi all’interno delle carceri di provenienza, ed oggi professionisti di cinema e palcoscenico, tornano con “Destinazione non umana”.

Non umano o disumano? Non umano è ab origine. Disumano è un umano privo della sua umanità, dei suoi sentimenti. Privo o privato?
Catene appese, abbeveratoi che sembrano bare, colori scuri, grida. Una recitazione forsennata, bestiale, in “romanaccio”. Una parlata fisica, rozza, rude all’orecchio. Maschile.

“Destinazione non umana è una favola senza morale, amara e disumana quanto può esserlo una fiaba, costruita sulle solitudini alle quali ci costringe il tempo che viviamo e sul pensiero della morte, sul vuoto lasciato da chi se n’è andato, sul dolore, la rabbia, la paura. Sullo sforzo bestiale di vivere contro e nonostante la certezza della morte”. Così ne parla Valentina Esposito, regista e autrice del testo. In realtà di morale ce n’è tanta. Forse “Destinazione non umana” parla proprio di morale, di ciò che concerne il comportamento dell’uomo davanti a scelte possibili. Parla di mores: di usi e costumi. Di chi li agisce e di chi li subisce.

Destinazione non umana: una bambina che gioca con i suoi cavalli giocattolo. “Mamma Cristallo mi è caduto, si è rotto in mille pezzi! Anche Rubino è caduto e si è fratturato una zampa! Mamma lo voglio tenere non lo voglio buttare! Diamante non l’ho più ritrovato! Non gioco più a questo gioco, si rompono tutti”. È con una bambina e i suoi sentimenti che si chiude “Destinazione non umana”, si chiude sul futuro, sulla speranza di una razza umana migliore. La morale sottende tutto il testo di Valentina Esposito: non i moralismi, non la moralità.

Un testo potente che parla di umanità nella sua forma oscurata, di avidità, di invidia, di inferno, di sofferenza, di malattia, di precarietà. Di tutte quelle tragedie che ci fanno sentire impotenti davanti a un destino che percepiamo deciso da altri. Anche da un dio.
Una scrittura immediata dove c’è la vita: la nascita di un cavallo; la gioventù con la sua irruenza e il delirio di onnipotenza che si scatena in pista; la malattia di chi si azzoppa; la morte; i sentimenti: rabbia, dolore, paura, solitudine, vuoto, ma anche speranza e amore. C’è la morte, il gancio dell’“ammazzatora” che pende su tutti col suono di ferraglia: l’unica vera e grande destinazione, umana e non. E la preghiera a dio: un dio sordo che nega anche la morte a chi vuole solo smettere di soffrire. Un dio ultima spiaggia di chi non sa a chi altro rivolgersi.

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Sette cavalli da corsa in attesa di essere macellati. E non importa se sono dopati, se non sono per consumo umano: il mondo sembra, tutto, destinato a essere non umano. Così inizia “Destinazione non umana”: vecchi aggressivi, sdraiati in mangiatoie, ma non quella che accoglie un dio appena nato. Cavalli umani che sopravvivono alimentati solo dalla rabbia, ormai incapaci di parlare, che sanno solo urlare. “O vinci o muori, era questo il nostro destino. O vinci o muori, o corri o muori, se caschi muori! So cascato? so caduto? Via, abbattuto!”. Non animali, ma esseri umani che conoscono solo l’animalità.
“Ce l’avevamo scritto sul corpo, nei geni, nel sangue, marchiati, prima de nasce”. La vecchia teoria della predestinazione. Mentre c’è chi pensa che il suo destino sia diverso. “Io non so fatto per questo, se so sbagliati, sicuro che se so sbagliati…”.

Chiuso in carcere, o chiuso nelle sventure di una vita che sembra senza uscita, chiuso nell’abbandono della vecchiaia, nell’incertezza della malattia, le paure di quei cavalli umani sono le paure di tutti: “ho paura di chiudere gli occhi.. ho paura della notte, dei sogni, del sonno, del buio”. Soprattutto se sei in carcere.
Affiora quel bisogno umano di protezione che a molti viene negato e che, come bambini ormai orfani, ci fa gridare, magari in silenzio “Non mi vendere, non mi abbandonare, non mi dare via, non lasciarmi solo… ho paura! posso dire di avere paura? Dovrei vergognarmi, ma un vecchio può dire tutto, tanto non lo ascolta nessuno, parla da solo, parlo da solo, povero animale che sono, nudo, patetico, rimbambito, che piango, tremo, mi trascino, dimentico le cose, dimentico me stesso, dimentico chi sono. E’ questa l’esperienza della morte prima della morte? La nostra destinazione disumana? Ti prego, non te ne andare, restami vicino, la mia immaginazione si è indebolita”.

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Nel monologo di Valentina Esposito, affidato a un vecchio cavallo umano, una preghiera straziante a un dio sordo che lascia i suoi figli in balia della guerra, dell’inferno dentro e fuori di loro, nel silenzio assordante di chi attende la morte come unica salvezza, mentre sta come d’autunno sugli alberi le foglie.
Ma c’è un controcanto, una musica di sottofondo: sono le canzoni e le nenie recitate in barese e in campano dalle donne: dialetti eco di terre e tempi lontani, dialetti musicali, forieri di legami profondi con una terra madre che da sempre accoglie. Suoni femminili.

Prima che l’uomo imparasse a venerare il cosmo, ha venerato la terra. Prima che una religione maschile inneggiasse alla guerra, alla forza e al potere, una femminile ha accolto un uomo-bambino apparso su una terra benigna e matrigna insieme, ma sempre creatrice di vita. Le preghiere dei cavalli morenti sono rivolti a una donna. Il ricordo di un amore perduto, mai consumato, è rivolto a una donna.
“Vieni Rubino non preoccuparti, mi prenderò cura di te, vedrai che starai meglio, non appena ti avrò aggiustato, ti faccio un lettino soffice soffice per sdraiarti e riposare, finché la zampa non si ripara”. È Nina, la bambina seduta in proscenio che gioca con i suoi cavallini, mentre sullo sfondo, agganciata alla catena della morte, pende una donna, che vola come fosse un uccello ora libero, che ha dato la sua vita per un uomo.

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“Io me voglio cambià destinazione – Non se pò cambia destinazione”. Davvero? Gli attori di FACT, quelli tra loro che vengono dai bracci di Alta Sicurezza delle carceri, sono la prova che se po’ cambià destinazione. Che tra destinazione umana e destinazione non umana, la differenza sta nella scelta. E la scelta la fai anche quando stai dentro, tra quattro mura sovraffollate. “Te devi imbastardì, n’hai capito come funziona pe’ sopravvive? uno contro l’altro, la corsa è la corsa, o vinco io o vinci tu”. Anche lì, nell’inferno del carcere, la scelta è tua. In un mondo sottosopra, vincere o perdere dipende da te.

“Come si fa a non avere paura, a non gridare, a non a bestemmiare, come si fa a farsi sentire? a farsi sentire da qui, da qui! lassù ci senti? mi senti! …. io non lo volevo un destino così…. hai capito, io questo gioco non lo voglio fare!!! hai capito? non lo voglio fare!!!!”.

E infatti Fabio Albanese, Alessandro Bernardini, Matteo Cateni, Chiara Cavalieri, Christian Cavorso, Viola Centi, Massimiliano De Rossi, Massimo Di Stefano, Michele Fantilli, Emma Grossi, Gabriella Indolfi, Giulio Maroncelli, Piero Piccinin, Giancarlo Porcacchia, Fabio Rizzuto, Edoardo Timmi hanno fatto altro. Fanno teatro. Chi viene da un sistema di massima sicurezza e chi dall’accademia di arte drammatica non ha importanza. Insieme fanno teatro. Emozionano il pubblico e si emozionano a loro volta. Vivono, tutti, la loro dimensione umana. Hanno scelto, tutti, una destinazione umana. E tutti arrivano potenti e diretti al pubblico, in un teatro, il teatro India di Roma, che ha registrato soldout senza nomi famosi, senza attori di grido. Ma con attori che gridano. Le loro emozioni. La loro destinazione umana.

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