“Fermammo persino il vento”: l’epopea partigiana in una raccolta di racconti
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“Fermammo persino il vento”: l’epopea partigiana in una raccolta di racconti

Se viviamo in un Paese democratico lo dobbiamo a quei valorosi ormai dimenticati che sacrificarono la vita per un ideale di libertà e di giustizia che oggi diamo per scontato, ma che scontato non era.

Resistenza
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Giuseppe Costigliola Modifica articolo

22 Giugno 2021 - 17.38


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La perdita di memoria storica, si sa, è una delle malattie più perniciose per un consesso civile. Dimenticare il passato, azzerare un mondo di esperienze, di conoscenze acquisite spesso con grave tributo di sangue e di dolore, è quanto di più stupido e pericoloso possa accadere ad una società. Un esempio del dannoso oblio in cui ci dibattiamo oggi, con i problemi etici, politici e di ordine pubblico che esso comporta, è la storia della guerra partigiana che rese possibile, con l’aiuto degli alleati, la sconfitta della peste nazifascista che flagellò per anni l’Europa. Se oggi viviamo in un Paese repubblicano e democratico lo dobbiamo infatti a quei valorosi ormai dimenticati che combatterono e sacrificarono la vita per un ideale di libertà e di giustizia che oggi diamo per scontato, ma che per i nostri padri e nonni scontato non era.

Accogliamo dunque con gioia ed interesse un libro che questa memoria intende ravvivare e tramandare, Fermammo persino il vento. Racconti e letteratura di partigiani, curato da Marco Codebò e Domenico Gallo, pubblicato da Shake edizioni (pp. 232, € 16). Codebò – scrittore e docente di lingua e letteratura italiana alla Long Island University – e Gallo – fisico specializzato in storia della scienza e della fantascienza, già curatore di racconti sulla Resistenza e direttore della rivista letteraria “Pulp Libri” – esplicitano nella premessa il motivo di questa riproposizione letteraria, che ruota attorno ad una cogente domanda: che valore può avere oggi il resistere, come scelta etica praticabile, in un mondo in cui i rapporti di forza fra potere e soggettività “sono tornati a presentare una disparità a favore del primo che non si vedeva dai tempi dell’Ancient Régime?” In un mondo, cioè, in cui l’idea e la pratica dell’antifascismo hanno perso mordente, e sembrano incapaci di contenere i rigurgiti fascisti che infestano l’Italia e il mondo? Siamo insomma davanti ad “una frana di senso” sul livello della pratica, che però – e ciò è materia di riflessione – non sembra riguardare la parola letteraria, vista la produzione narrativa resistenziale apparsa in questo scorcio di XXI secolo, opera di scrittori che non hanno avuto esperienza diretta della guerra partigiana.

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Confortati da questo “primato ontologico” del resistere, i curatori presentano una silloge di racconti della Resistenza italiana antifascista e antinazista scritti a guerra ancora in corso, nel biennio 1943-45, per inquadrarla in una serie di pratiche resistenziali che l’hanno storicamente preceduta: e poiché “di resistenze è piena la nostra storia”, possiamo oggi immaginare che la catena non si sia interrotta nel 1945 e che “in maniera carsica il resistere continui a porsi in maniera testarda prima del potere pur nei nostri tempi apocalittici”.

Gli autori dei testi presentati in questo libro ci portano testimonianza non solo della loro qualità di scrittori, ma soprattutto del fatto che “la parola stessa è terreno di lotta, di resistenza”, elemento in quel momento storico altrettanto importante della lotta armata condotta in clandestinità sulle montagne o nelle città occupate dal nemico. Ciò spiega la mole di racconti, memorie e riflessioni elaborati dai professionisti della parola, e la sterminata produzione letteraria affidata a non professionisti delle arti letterarie, tutti compresi del desiderio/dovere di non lasciare svanire nel vuoto l’unicità dell’esperienza vissuta, di fermarla nello scritto e tramandarla a futura memoria. La memoria, appunto.

Il libro è diviso in sette blocchi tematici, che tratteggiano il composito universo peculiare di quel fenomeno storico: Pensare la Resistenza; Guerriglia in città; La Resistenza dei civili; La sofferenza, la prigione e la morte; Partigiani in montagna e tra le paludi; Le donne tra guerra e Resistenza; Amore e amicizia.

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La raccolta si apre con un testo non narrativo: si tratta dell’“Introduzione” al numero 4 della rivista “Mercurio” (apparso nel dicembre del 1944 e dedicato interamente alla Resistenza) di Alba de Céspedes, la partigiana Clorinda, che testimonia, insieme a quello di Corrado Alvaro che lo segue, il risveglio etico e spirituale dopo il ventennale “grande sonno” del Fascismo e la progressiva messa a fuoco del problema della responsabilità della società italiana verso la dittatura e il conflitto che seguì. Nella prima sezione appare anche uno dei primi racconti dedicati alla guerra in Italia e alle stragi nazifasciste, “Calce sul muro”, di Gino De Sanctis, pubblicato sotto lo pseudonimo di Partizan nel 1944, che descrive la vicenda di una famiglia sterminata dai soldati tedeschi in un casolare della Campania.

Di particolare interesse risultano le ultime due sezioni, “Le donne fra guerra e Resistenza” e “Amore e amicizia”. La prima affronta l’esperienza femminile della Resistenza, qui affidata alla penna di Renata Viganò con “Le calze di lana”, uno dei componimenti di maggior pregio narrativo della raccolta; la seconda affronta un argomento poco frequentato, l’attrazione erotica fra combattenti, qui tematizzata da Carlo Còccioli, i cui due brani, “Alberto” e “Il gatto”, sono tratti dal suo romanzo Il migliore e l’ultimo, uscito nel 1946.

Al di là degli esiti letterari – alcuni racconti, come quelli di De Sanctis, Onofri, Pratolini, Banti, Del Buono, Viganò, Del Boca, hanno una dimensione spiccatamente narrativa capace di trascendere la regola del vero e i limiti dell’autobiografia –, in tutti gli scritti appare quel lancinante desiderio di testimonianza di cui si diceva, l’esigenza di raccontare fatti e distillarne significati, di rappresentare l’internazionalismo dell’antifascismo, quel particolare territorio di elezione spirituale che era il mondo dei resistenti, e in alcuni anche il precoce tentativo di affrontare le crisi di coscienza e i sensi di colpa, come nello splendido “La Ilde” di Bruno Berellini, o il trionfo della regressione spirituale in tempo di guerra, come nel fulminante “Il figlio della brigata nera” di Angelo del Boca.

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Ma le parole conclusive dello scritto di Alba de Céspedes saranno forse la migliore presentazione di questo libro, del senso d’urgenza e di rinascita, della forza d’animo, della lucidità e della specchiata moralità che animò gli autori qui presentati e i molti combattenti, della loro lucida testimonianza d’un tempo tragico e dell’orgoglio d’una scelta, l’unica in grado di dare vita ad un mondo migliore: “Difficile sarebbe fare oggi una storia di questa guerra sorda e sotterranea. Poiché essa continua tuttavia, nell’Italia occupata, dove nelle campagne e nelle città, sulle Prealpi e sui laghi, mille altre pagine, autentiche pagine di resistenza si scrivono. Dove si combatte ancora contro il tedesco, o peggio contro i nostri fratelli che hanno tradito o contro i più deboli che non hanno saputo o voluto resistere, scegliendo l’incertezza e il compromesso. Adesso, tirando le somme, per loro proviamo meno disprezzo che pietà. Poiché essi non hanno vissuto con noi questo anno [1944] terribile e bellissimo, non hanno sentito, attraverso una dura e tragica gestazione, dai nostri patimenti e lutti, rinascere a poco a poco l’Italia. […]

Questa è la nostra gente. Cara gente italiana che in questo anno trascorso ci si è mostrata com’era, con le sue debolezze e ferite, ma anche con la sua grandezza, con la sua nobiltà, la sua secolare forza di resistenza alla barbarie, al dolore, alla miseria, con lo spontaneo sacrificio delle sue terre, delle sue case, dei suoi figli, che le darà, noi affermiamo con orgogliosa certezza, il diritto di partecipare senza vergogna alla grande famiglia europea di domani”.

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