Massini: “Il Coronavirus racconta la paura del nostro tempo, quella di essere ‘infettati’ da chi viene da fuori”
Top

Massini: “Il Coronavirus racconta la paura del nostro tempo, quella di essere ‘infettati’ da chi viene da fuori”

L'attore a Piazzapulita: "L’unica cosa di cui veramente ci frega è che ciò che avviene fuori dal nostro piccolo cerchio non inquini la nostra quiete"

Stefano Massini
Stefano Massini
Preroll

globalist Modifica articolo

5 Marzo 2020 - 22.10


ATF

Non è stato certo l’unico Stefano Massini a vedere nel Coronavirus una metafora crudele e – diciamolo – anche ironica del nostro tempo. E non ci riferiamo solo al contrappasso subito dai sovranisti italiani, che si vedono ora respinti alle frontiere di mezzo mondo e accusati di essere gli untori d’Europa. Come ben spiega l’attore e scrittore a Piazzapulita, questo virus “racconta il nostro mondo meglio di qualunque altra cosa”. 
“Per stare tranquilli” dice Massini, “dobbiamo stare all’interno di un cerchio per un metro di raggio. Lì saremo protetti. Per tantissimo tempo abbiamo discusso e polemizzato sul tema dei confini, delle frontiere, sul fatto che nell’era della globalizzazione ci fosse bisogno di confini netti. Ora parliamo dei confini di ognuno di noi. Dentro questi confini non deve entrare l’altro”. 
“Bene. Se questi sono i miei confini, allora decido io. Io non voglio il virus, ma non voglio neanche la sguaiatezza, non voglio quel meccanismo secondo cui siccome si ha paura allora tutto è consentito. Non voglio nessuno che dica che è colpa dei cinesi, non voglio nessun contagio da imbecillità da quelli che dicono che questo è il virus della globalizzazione e poi hanno i telefoni fatti in Pakistan. Non voglio l’amnesia di un paese che finge di scordare che in Italia i medici sono pagati meno di tutti, e soprattutto non voglio che entri il gravissimo virus del menefreghismo”. 
“44 anni fa in Sudafrica c’era una manifestazione in corso perché lo Stato aveva deciso che i bambini dovevano imparare una lingua che non era la loro ma quella dei colonizzatori. Un giorno, il 16 giugno, la polizia cominciò a tirare i lacrimogeni a una manifestazione dove c’erano bambini. Una ragazza vide morire suo fratello. La fotografia di quel momento cambiò la storia e raccontò il dramma del Sudafrica, e in tutto il mondo ci fu un contagio di indignazione.

Vorrei farvi vedere un’altra fotografia, che viene dalla Grecia. Un altro bambino ch sta per morire, altri lacrimogeni: ma pensate che a qualcuno gliene freghi qualcosa? No, perchè questo dramma non entra all’interno del nostro cerchio di un metro di raggio. Noi viviamo oggi in un’epoca in cui nulla ci interessa se non quello che è immediatamente vicino a noi.

Quando è scoppiato il virus non ci interessava, perché era in Cina. Poi il virus si è esteso, in Iran in Corea. E poi solo nel Nord Italia, e così continuerà a essere: Nella nostra regione, nella nostra città, nel mio isolato, nel mio palazzo. L’unica cosa di cui veramente ci frega è che ciò che avviene fuori dal nostro piccolo cerchio non inquini la nostra quiete, la nostra relativa forma di equilibrio.

Caro coronaivirus, tu mi stai profondamente sulle palle perché racconti la nostra epoca meglio di qualunque altra cosa. Tu racconti il fatto che viviamo in un’epoca in cui non vogliamo essere contaminati da qualunque cosa sia fuori di noi. Questo è semplicemente inaccettabile per chiunque voglia continuare a indignarsi, a guardare il mondo fuori dal cerchio, anche a costo di essere contaminato da un virus potentissimo, come l’indignazione”

Native

Articoli correlati