Il sogno di Anna, memoria e narrazione per i più giovani
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Il sogno di Anna, memoria e narrazione per i più giovani

Era una giornalista Anna Politkovskaja ed è stata ammazzata a Mosca 10 anni fa. Come trasmettere ai giovani la memoria?

Anna Politkovskaja
Anna Politkovskaja
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5 Ottobre 2016 - 17.58


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Dieci anni fa la morte di Anna Politkovskaja. Era una giornalista. Sulla Novaja Gazeta scriveva quello che vedeva e che scopriva. Per questo motivo, la sera del 7 ottobre 2006, Anna Politkovskaja è stata ammazzata nell’ascensore della sua abitazione a Mosca, mentre tornava a casa.
Tanti i modi per ricordarla, dieci anni dopo. Per narrare ai giovani le sue speranze, le sue idee, il concetto di giornalismo legato alla visione dei fatti, alla realtà, non all’ideologia o all’indifferenza a favore del potere. Tra i tanti modi c’è quello di Lucia Tilde Ingrosso, giornalista e scrittrice. Che ha dedicato a questa trasmissione di valori un bellissimo libro: “Il sogno di Anna”, pubblicato per Feltrinelli. Si tratta della storia di una ragazzina italiana di 15 anni che vive a Milano e vorrebbe fare la giornalista. Si chiama Anna come si chiamava Anna la grande giornalista russa assassinata, la Politkovskaja. Ed è nel rapporto tra la vocazione della ragazzina e il suo modello che il romanzo di formazione procede delineando la sfida personale della ragazzina all’interno di una delle più complesse sfide del tempo, quella dell’informazione. La sfida della conoscenza non adulterata, una sfida enorme che non sembra che il mondo stia vincendo. Anzi, per essere più chiari e precisi: una sfida che i cittadini nel mondo non stanno vincendo. Perché al momento a prevalere sono la prepotenza e la propaganda.
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Nella nota che accompagna il libro, splendidamente scritto da Ingrosso, viene citata una frase di Politkovskaja: “Non sono un vero animale politico. Non ho aderito a nessun partito perché lo considero un errore per un giornalista, almeno in Russia. Quale crimine ho commesso per essere bollata come ‘una contro di noi’? Mi sono limitata a riferire i fatti di cui sono stata testimone. Ho scritto e, più raramente, ho parlato”.
Per Anna, giornalista in erba, queste parole sono la guida. La mamma la vorrebbe avvocato, con un certo anticipo sui tempi, ma lei è testarda: “Adora il ticchettio della tastiera e sogna luoghi lontani da visitare e piccole e grandi storie da raccontare. Nel suo piccolo, incontra dei dilemmi (pratici e morali) con cui la giornalista russa si è imbattuta su larga scala. Per esempio, dare visibilità a chi ti è amico o a chi se lo merita? Come reagire alle intimidazioni e alle lusinghe del quotidiano? Come raccontare una storia con sentimento mantenendo contemporaneamente la lucidità di giudizio?”
Ingrosso affronta un tema scottante, quello dell’informazione come sogno e del mestiere come realtà, ridiscutendo le basi stesse dell’informazione. “Ho scritto questo libro per trasmettere l’amore per il secondo lavoro più bello del mondo, il giornalista (il primo, per me, è lo scrittore). E per raccontare ai ragazzi una grande giornalista: Anna Politkovskaja. Minacciata, umiliata, maltrattata, derisa. Oltre 40 volte in Cecenia, per raccontare una guerra dimenticata. All’estero era amata e corteggiata. Pubblicava libri, vinceva premi, partecipava a convegni internazionali. Poteva uscire dalla Russia, ma non farsi uscire la Russia dal cuore. Perciò, pur sapendo di essere ‘in scadenza’  rimase e andò incontro al suo destino”.
Il 7 ottobre 2016, nel decennale della morte di Anna, l’associazione Annaviva racconterà questa grande donna ai giovani, con la presentazione di questo libro di Lucia Tilde Ingrosso. L’appuntamento è per le ore 18 e 30 presso “Il mio libro”, in via Sannio 18 a Milano.

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Su Globalist 5 anni fa è apparso un articolo a firma Maria Magarik in cui parlava la figlia di Anna: Questa Russia non vuole la verità su Anna Politkovskaja.

Era il 7 ottobre 2006…

“Mi ha aiutato molto il fatto di avere la mia bambina. Anche lei si chiama Anna. La nuova vita ti costringe a dimenticare le tragedie personali, perché devi darle da mangiare, devi metterla a dormire, le devi raccontare le fiabe. Ad Anna le racconto che quando era nella mia pancia sua nonna è stata ammazzata. Forse lei saprà chi è stato”.

Vera Politkovkaja oggi ha 31 anni, e la sua piccola ne ha cinque. Quel 7 ottobre del 2006 era, appunto, nella pancia di Vera. Mosca ha i colori dell’autunno inoltrato. Gli stessi colori del giorno in cui uccisero Anna Politkovskaja, madre, donna in gioiosa attesa di divenire nonna, e giornalista impegnata a raccontare, uno dietro l’altro, gli orrori del potere e di una guerra, quella in Cecenia, che il potere avrebbe voluto far passare per una questione interna, di criminalità.

Vera, la figlia di Anna, ha gli stessi occhi chiari, colore del ghiaccio quando si vena d’azzurro, della madre. Dimostra ancora meno dei suoi anni, ha lo stesso carattere della madre. Le piaceva la musica classica e da ragazzina era andata in Conservatorio, poi il giornalismo. Per prendere il testimone di una madre strappata per sempre a lei e alla famiglia. Per continuare a denunciare quello che della Russia di oggi non va.

“Ho vissuto tutta la mia vita accanto a giornalisti”, dice Vera, avanzando sul marciapiede che comincia a coprirsi di foglie dorate. “Prima mio padre, poi mia madre. Vivere ed essere minacciati, ti abitui e non ci fai più caso. Da piccoli io e mio fratello andavamo a scuola con la scorta. C’erano compagni di banco che ci ignoravano perché i genitori dicevano loro”Attenzione, i genitori di questi ragazzi sono cattivi!”. Questa è stata la mia infanzia”.

Via Lesnaja. Non è cambiato molto. Qui viveva e qui è stata uccisa Anna. “Mi ero trasferita da lei perché avevo lavori di ristrutturazione a casa mia e perché ero incinta. Quel 7 ottobre ero in giro per negozi. Chiamavo mia madre continuamente per avere da lei consigli sulle cose da comprare per casa, per l’arredamento. Ad un certo punto il suo telefono risultò irraggiungibile. Ho chiamato mio fratello Ilja, gli ho detto di andare a casa di mamma, abitava non distante da lei. Ero preoccupata, temevo stesse male”.

Vera si ferma. Per controllare l’emozione: “Dopo un poco Ilja mi ha chiamato e mi ha detto quello che era successo, che nostra madre non c’era più. Ho fatto la strada di corsa, sotto casa tanta polizia. Sapevo che l’appartamento era stato messo sottosopra, sequestrato il computer. Ma abbiamo dovuto aspettare tanto per salire a casa di mamma. Non riuscivo a credere a quello che era successo, non volevo crederci, ma l’avevano uccisa”.

Vera chiude questa pagina del ricordo, preferisce tratteggiare il profilo di una madre che manca: “Mia madre aveva un carattere forte. Quando eravamo piccoli lo sentivamo. Non era facile. Quando siamo cresciuti le cose sono cambiate. Lavorava sempre tantissimo. Inchieste, reportage, ma quando in casa c’era una emergenza lasciava tutto e si occupava di noi”.

Anna sapeva d’essere in pericolo, le avevano detto di stare attenta. Sapeva di rischiare, ma sapeva anche che non poteva fermarsi nella ricerca delle verità nascoste del suo Paese. “Andare fino in fondo, aiutare gli altri – ci ricorda Vera – lei diceva sempre “Se non io, chi?”.

Compromessi. Per Anna Politkovskaja era una parola che non esisteva nel vocabolario e nella sua idea etica della vita. Nell’idea che lei aveva della sua Russia.

“Non le importava niente dei soldi – ricorda Vera – Se vuoi guadagnare, diceva sorridendo, devi scrivere a comando, scrivere le cose volute dal regime”.

I racconti di Anna sulla Cecenia sembravano racconti dell’orrore, la tragica sceneggiatura di un film lontano dalla realtà. Ed invece era la semplice, scomoda verità. Fosse comuni, torture, la violenza quotidiana di una vera e propria guerra. Una guerra in casa.

“A Mosca, ai moscoviti, tutto questo appariva pazzesco, solo un brutto sogno – dice Vera – E la volta che mia madre fu arrestata in Cecenia capimmo che poteva finire male. Lo stesso quando fu avvelenata sull’aereo per Beslan”.

Fermarsi. Anche questa parola non era nel vocabolario di Anna Politkovskaja. Alla morte di Anna le autorità promisero di trovare la verità in poco meno di una settimana. Sono passati cinque anni. E niente.

“Spero che almeno mia figlia possa conoscere la verità”. Vera prende qualche secondo di tempo prima di rispondere alla domanda sulla Russia di oggi.

“Ecco la ricca e benestante Mosca – e accompagna le sue parole con un gesto della mano che ci invita a guardarla la città in movimento -I poliziotti picchiano i manifestanti che scendono in piazza, l’opposizione non ha voce, regna la cultura del più forte e una dilagante corruzione. Il potere dice “Non potete dare bustarelle”, ma ovunque le pretendono, altrimenti i medici non ti curano e gli insegnanti non seguono come dovrebbero i tuoi figli”.

Si è fatto tardi, Vera deve andare dalla sua piccola Anna. Un abbraccio e le parole di Vera, parole dolorose di pessimismo:”Non scommetterei sul futuro di mia figlia in questo Paese. Potrebbe “girare” peggio. Quel giorno farò le valigie e me ne andrò. Non voglio aspettare che qualcuno mi spari in strada”.

 

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