di Maddalena Papacchioli
Dev’essere lo stesso pudore reverenziale verso il potente di turno quello che ha spinto, quasi simultaneamente, in questi giorni, gli obbedienti e sottomessi attori politici britannici e italiani ad offendere la libertà dell’arte in nome della sottomissione alle ragioni della diplomazia e della pacificazione.
Mi riferisco a due episodi paradossali a cui abbiamo assistito a distanza di poche ore, prima in Inghilterra e poi, appunto, in Italia.
Episodio numero uno. Davanti all’ambasciata francese a Londra compare l’ultimo murale di Bansky, che denuncia l’uso di lacrimogeni da parte della polizia francese contro i migranti del campo profughi di Calais, lo scorso 5 gennaio. Le autorità britanniche provvedono immediatamente ad oscurare l’opera con un pannello.
Episodio numero due. In occasione della visita a Roma del presidente iraniano Rouhani, ai Musei Capitolini vengono coperte alcune statue di nudi, come forma di rispetto verso la “sensibilità iraniana”.
Nel primo caso, è ormai chiaro che la street art di Bansky non sia gradita a nessun soggetto suscettibile e perbenista, a chi sguazza nel luogo comune (anche di ordine estetico-artistico) e chi, quindi, prova disgusto, o semplicemente non comprende, i giochi di détournement e di smascheramento del marketing politico-sociale che impone il conformismo sfruttando il fascino discreto della normalità. E perciò, un’opera in cui si sovrappongono visivamente degli elementi con forte valore simbolico ed evocativo – come la bandiera francese e l’eroina letteraria Cosette – ha l’efficacia pericolosa di richiamare l’attenzione critica dell’opinione pubblica su valori-cardine, non solo della Francia, ma della società civile e democratica dell’intera Europa.
Liberté-Egualité-Fraternité + Misericordia (altra parolina magica e salvifica dell’anno domini 2016) non fanno rima con quell’Accoglienza che è stata riservata ai migranti (i nuovi “Miserabili”) nella giungla di Calais.
La grandezza di Bansky e della sua opera consiste nel demolire l’ipocrisia del potere sfatando il mito su cui si fonda la nazione (l’orgoglio e l’identità francese), inchiodandola alla cronaca dei fatti attuali, vera e documentata. E’ geniale, in questo senso, l’inserimento nel murale, di un codice QR che reindirizza lo spettatore a un video web, diffuso da Youtube, che mostra i fatti di Calais.
E’ geniale perché ci fa riflettere sulla potenza spaventosa dell’arte digitale nel discorso politico: vuol dire che quell’opera non è frutto di visionarismo, non è un’iperbole poetica, ma è una prova scientifica (alla faccia di ogni dogma o strumentalizzazione ideologica) che si trasforma in un atto d’accusa incontestabile.
L’opera di Bansky, quindi, punta l’indice contro il colpevole, davanti un pubblico globale (com’è globale la rete), chiamato ad essere giuria nel pubblico processo contro una civiltà allo sfacelo. Che pratica l’accoglienza dei più deboli con metodi quantomeno discutibili. Che invece di asciugare le lacrime dei sofferenti, gliene provoca ulteriori, artificiali, con sostanze gassose legalizzate dallo stato, per motivi di sicurezza e di ordine pubblico.
E’ una verità scomoda da raccontare a chi se ne sta tranquillo dentro i propri confini del benessere, a chi chiude la frontiera alla disperazione di chi scappa dall’oppressione della guerra e della fame.
E soprattutto, l’arte di Bansky va a toccare il nervo scoperto del nostro sistema democratico e delle sue pratiche di forza e di difesa interna, poco conciliabili con gli alti e nobili ideali che ispirano le nostre costituzioni e le normative internazionali a tutela dei diritti umani.
Proseguo questa mia analisi azzardando un parallelo tra la censura di Bansky a Londra e l’autocensura preventiva che è stata riservata alle povere statue nude, ospiti da sempre ai Musei Capitolini, le quali ieri hanno dovuto accettare di farsi inscatolare e rimanere al buio, zitte zitte, in attesa che passasse la bufera.
La “sensibilità iraniana” di Rouhani, che non si è voluta urtare lasciando le statue così com’erano, a casa loro, dev’essere la stessa sensibilità, delicatissima, che lo illumina sulla via delle riforme alla guida di un paese che detiene il record mondiale di esecuzioni capitali.
E certo che il nostro premier, Matteo Renzi, e i suoi diplomatici consiglieri, devono aver pensato bene che non fosse garbato accogliere Rouhani in una cornice di degrado estetico e morale che ci invidiano in tutto il mondo, ritenendolo un patrimonio storico-artistico senza pari.
Viene da chiedersi cosa ne sarebbe stato del Colosseo, per esempio, se la “sensibilità iraniana” avesse previsto un fastidio del presidente Rouhani per i monumenti senza porte.
Ma a parte l’ironia suggerita dai personaggi e dalle contraddizioni ad essi legate, il gesto di asservimento gratuito che Renzi ha compiuto attraverso quest’ esercizio di autocensura è aberrante. Arriva l’ospite importante e si nasconde la polvere sotto il tappeto. Più o meno.
E questa forma di “rispetto” per l’interlocutore, diversamente democratico, che scade nel ridicolo e nell’anacronistico, sarà da interpretarsi come un cascame della realpolitik, che impone una certa cautela nel gestire le relazioni internazionali quando sono in ballo importanti accordi commerciali?
Dev’essere, quindi, lo stesso pudore reverenziale verso il potere, che oscura con un pannello la verità scomoda dipinta su un muro e inscatola le statue nude e belle lasciandole al buio e in silenzio.
E’ il potere della sicurezza e degli affari che prende l’arte… e la mette da parte.
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