Un particolare del tutto ininfluente rispetto al tema centrale. A piazza Domenico Tani – il centro di “Tivoli vecchia” – un cartello indica la direzione per la visita del Santuario di Ercole Vincitore. Piazzato lì nel 2011 – data dell’inaugurazione non si sa bene di cosa -, lì è restato, nonostante il monumento sia rimasto sempre chiuso ai visitatori.
Il fatto è che turisti ne arrivano. Ignari. E la scarpinata non è proprio da passeggio. Il particolare è ininfluente rispetto al tema ma rivela ampiamente i criteri sulle modalità di gestione. “La nostra industria è il turismo”, sostengono un po’ tutti i governanti. Appunto…
Dalla premessa al tema il passo è conseguente. Perché il filo conduttore è analogo. Si è indetto un ‘concorso di idee’, c’è chi l’ha vinto, al ministero, alla soprintendenza eccetera è andato bene, sono iniziati i lavori. Che proseguono. Nella stessa direzione, con le stesse modalità.
Eccole: il 18 settembre hinterlandweb ha pubblicato una notizia breve a corredo di due fotografie. Una immagine in particolare – che riproponiamo sopra – mostra la scalinata del teatro, sulla quale, terminato il ripristino, risulta oggi lo sversamento di calcestruzzo in abbondanza, a coprire i solchi dei gradoni e dei passaggi di travertino. Il teatro antico, risalente al I secolo a.C.? Distrutto. Non c’è più.
Stessa sorte attende altre memorie. Se vivessimo in un Paese serio, il controllore (il ministero, la soprintendenza, un qualche ispettore dei beni culturali), sarebbe intervenuto (prima) e ideatori, progettisti, esecutori, sarebbero stati accompagnati alla porta. In Italia le cose vanno diversamente. Tanto è vero che non solo gli autori delle colate di cemento sono rimasti al loro posto ma i lavori vanno avanti.
Però c’è un altro, non titolato ma se possibile ancor più ‘colpevole’: è Tivoli. A cominciare da chi, a Palazzo San Bernardino (la sede del Comune), di destra o di sinistra – prevalente la seconda – pensava ad altro. Non distratto dalla quantità del ‘suo’ cemento. Poi i tiburtini. Che in altri momenti non avrebbero permesso fatti del genere. Immaginarsi, per circoscrivere ai tempi vicini, Massimo Coccia, Alcibiade Boratto, Rodolfo Andreoli, Luciano Berti, Piero Ambrosi ‘accettare’ uno stravolgimento di tal fatta, la trasformazione del Santuario di Ercole Vincitore in una giostra, in un luna park. Sindaci che avrebbero chiamato alla disapprovazione l’intera città e il ministero a rendere conto.
Non tutto è perduto. La condizione è una e una soltanto. Che Tivoli non accetti. Che non subisca. La mobilitazione sarà ampiamente sostenuta.
“A Tivoli la teatrale, suggestiva integrazione tra remoti culti pagani e resti dell’industria ai suoi albori, che a Roma ha visto la luce con l’allestimento nella centrale Montemartini, ha un’origine più antica e radicata. E rimarrà come tratto costitutivo del progetto di rinascita del Santuario che, redatto dalla direzione regionale del ministero, prevede il ritorno degli spettacoli nell’anfiteatro liberato dal cemento, la messa in mostra dei reperti in un antiquarium, servizi d’accoglienza, un bookshop. Infine, la valorizzazione delle vecchie fabbriche che hanno inglobato (in parte salvato) il dominio di Ercole”: a firma di Carlo Alberto Bucci, è la conclusione dell’articolo apparso su Repubblica il 26 aprile 2009, e ben sintetizza gli scopi del progetto di recupero del Santuario di Ercole vincitore da parte del ministero dei Beni culturali.
Però, da allora, qualcosa nelle intenzioni del Mibac è cambiato. Perché, colate di cemento incluse, il prossimo “obiettivo” da colpire risulta (come si può vedere dai grafici) l’abbattimento delle capriate ristabilire-marginiche sovrastano il portico.
Quindi, addio “alla suggestiva integrazione tra remoti culti pagani e resti dell’industria ai suoi albori”.
Ma non solo di sfregio a un esempio di archeologia industriale si tratta. Quell’ambito, così rudemente interpretato dai ministeriali, racchiude un pezzo di Storia d’Italia, persone, volti ed eventi che fanno parte del patrimonio del Paese, rilevanti non soltanto per gli studiosi o gli addetti ai lavori.
Schematicamente, di seguito si diranno le motivazioni (mentre una storia compiuta degli albori di Villa Mecenate poi Tempio e quindi Santuario di Ercole vincitore si può trovare grazie a Luciano Nasto, per i tipi della ‘Società tiburtina di storia e d’arte’.
Intanto, il capitolo dell’industria moderna, a Tivoli coincidente con quell’epoca che nei libri di testo viene definita ‘rivoluzione industriale’. La ferriera. Eretta sulle strutture in parte fatiscenti di Villa Mecenate. Inaugurata nel 1795, due anni dopo, sotto la direzione di Carlo Lombardi, inizia a produrre armi per lo Stato pontificio.
Ma i problemi non mancano, di natura logistica e soprattutto viaria. Ancora oggi è complicato transitare per il Colle, su strade costruite per muli e carretti trainati da un cavallo. Passa un lustro e la fabbrica viene rilevata nel 1801 da Luciano Bonaparte, fratello dell’imperatore, che ne fa una fonderia (con i prodromi dell’ecologia: gli abitanti di ‘Tivoli vecchia’ protestano contro i fumi che sprigiona e i rumori). Si producono cannoni.
LA CARTIERA SEGRE’. Per un’avventura che termina un’altra che prende l’avvio.
L’araba fenice ha le sembianze della “Società anonima delle cartiere tiburtine e affini”. Fondata da Giuseppe Segrè nel 1889, occupa lo spazio in precedenza della ‘ferriera’ e inizialmente dà lavoro a 300 operai (saranno il doppio alcuni anni dopo, quasi mille nella fase di punta).
A produrre sono 4 macchine continue organizzate su 3 turni di lavoro; modernissime, da una parte entrano pasta-legno o paglia, dall’altra esce carta, nei vari tipi ma prevalentemente kraft; per un certo periodo anche per sigarette. Un particolare. Segrè senior aveva diretto per qualche tempo la “Ceramica Palme” di Pisa (poi ‘Richard Ginori’). Dove acquisì la conoscenza sull’uso della ceramica. Che adoperò per rivestire i vasconi contenenti la pasta-legno necessaria alla produzione della carta. Come si vede nel grafico, collocati tra il capannone (quello provvisto ancora di tetto) e le capriate che si vogliono abbattere, i vasconi sono ancora lì. Da demolire anch’essi.
EMILIO, IL PREMIO NOBEL, FIGLIO DI AMELIA TREVES. Due i figli di Giuseppe Segrè, Marco – che si occupa della produzione, fino a collocare le ‘Tiburtine’ tra le prime venti cartiere italiane – ed Emilio, discepolo di Enrico Fermi, uno dei “ragazzi di via Panisperna”, insignito del premio Nobel per la Fisica nel 1959. Consorte di Giuseppe Segrè è la fiorentina Amelia Treves, cognome assai noto alla storia politica e all’editoria.
LE LOTTE DEI CARTAI. L’economia comincia a risvegliarsi dal conflitto mondiale, il sistema produttivo la segue. La materia prima, tutta di importazione – dal Canada e dalla Finlandia -, risente del cambio tra lira e dollaro, unito a difficoltà finanziarie solo in parte conseguenti. Motivi che portano la famiglia a lasciare le ‘Tiburtine’, cedute, a fine anni ’50, alla ‘United Paper Mills’, multinazionale finlandese appunto, che chiuderà lo stabilimento del Colle nel 1967 trasferendo la produzione del kraft nella nuova azienda costruita a Pontelucano, chiusa anch’essa qualche anno dopo, nel 1973. Per qualche mese la prima, per oltre un anno l’altra, le due cartiere verranno occupate dalle maestranze. Con successo. Le ‘Tiburtine’ di Pontelucano verranno rilevate infatti dal gruppo ‘Taschetti’ di Lecco.
La completa dismissione da parte dei finlandesi è seguita dai proprietari delle altre cartiere, ancora una mezza dozzina. Via via, nell’arco degli anni Settanta, cessano tutte l’attività. Fenomeno accentuato dalla ‘sostituzione’ della produzione con la finanza, esportazione dei capitali in prevalenza. I circa 1200 lavoratori licenziati, sperimentarono sulla propria carne, in assoluto tra i primi, le conseguenze di quelle operazioni.
LA PRIMA LUCE ELETTRICA ARRIVA A ROMA. Nel luglio del 1892, dalla centrale idroelettrica situata nel “Santuario di Ercole Vincitore” a Tivoli, si sperimentò per la prima volta nel mondo la trasmissione a distanza di
corrente elettrica alternata, che fu inviata a Roma, dove una centralina situata a Porta Pia provvedeva a distribuirla agli impianti di illuminazione pubblica allora predisposti in città (Wikipedia).
In sostanza, la multisecolare coesistenza di aspetti così rilevanti nonostante la loro diversità, ha permesso che archeologia, culti dell’antichità, scoperte scientifiche, rivoluzione industriale, lotte operaie, si sostenessero a vicenda, un pezzo di Grande Storia distribuito per oltre duemila anni si è difeso non solo dal tempo ma dalle avversità d’ogni specie. Ora si vuole distruggere. La memoria con le sue espressioni ‘fisiche’. Tivoli – e non solo Tivoli – non deve accettare. Il recupero del Santuario e di quanto la Storia ha voluto avvenisse in quel piccolo perimetro possono e debbono convivere. Tutti comprendono che, reciprocamente, arricchiranno l’interesse del visitatore. Il progetto? Chiediamo cosa ne pensano il Fai (Fondo ambiente italiano) e l’Unesco.
1973, manifestazione a Roma contro i licenziamenti e la chiusura delle fabbriche