The Wolf of Wall Street: il lupo non perde il pelo
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The Wolf of Wall Street: il lupo non perde il pelo

Il nuovo film di Martin Scorsese racconta la storia di un vero broker di Wall Street condannato per frode. E Di Caprio diventa una perfetta bestia feroce. Da oggi al cinema.

The Wolf of Wall Street: il lupo non perde il pelo
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23 Gennaio 2014 - 14.40


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[size=1]Il trailer del film[/size=1] di Giorgia Pietropaoli

«Vuoi sapere cosa sono i soldi? Vai al piano del trading di Wall Street. ‘Fanculo questa merda, stronzo, cazzone, coglione. È incredibile come questi tizi parlino tra di loro». Jordan Belfort, novellino del brokeraggio, ci mette poco ad imparare. Se poi il tuo maestro è un Matthew McConaughey (in stato di permanente grazia dopo Magic Mike e Killer Joe) che si batte il petto a suon di pugni/cori, che si masturba due volte al giorno e sniffa coca appena può, bè allora il segreto del successo diventa subito chiaro. E in breve tempo capisci pure come diventare più che benestante con le penny stocks, meglio note, da noi, come azioni monetina. Se le rifili ai ricconi, poi, sei sulla strada giusta. Si, la strada. Quella che ti porta dritto dritto a trasformarti in una schifosissimamente ricca, fraudolenta (o fugazy) canaglia fuori di testa. La testa di cazzo che, prima o poi, i federali beccheranno. Solo che il delirio di onnipotenza non te ne fa proprio rendere conto subito. «Oltre a Naomi e ai miei due perfetti figli, possiedo una villa, un jet privato, sei macchine, tre cavalli, due case delle vacanze e uno yacht di cinquanta metri. Scommetto come un degenerato, bevo come una spugna, vado a puttane cinque, sei volte a settimana, ci sono tre diverse agenzie federali che sperano d’incriminarmi e amo le droghe. Ogni giorno consumo abbastanza farmaci da sedare Manhattan, Long Island e il Queens. Per un mese».

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Di Caprio indossa alla perfezione l’identikit del bastardo di successo, plurimiliardario, pluricarismatico, pluridrogato, plurisfacciato, pluriparaculo. Rispolvera la maschera spielberg-hiana di Frank Abagnale Jr, riesce a shakerarla sapientemente con la cattiveria del tarantiniano Calvin Candy, la mischia a tratti con le menomazioni di Arnie Grape (è vero, ve lo giuro!) e crea un nuovo personaggio esplosivo, dissacrante, geniale. L’occhio di Martin Scorsese lo segue divertito, scanzonato e senza moralismi. Se la sceneggiatura commette peccato quando richiama alla mente prima Blow e poi Prova a prendermi, è proprio Scorsese che rimarca le differenze e riesce a confezionare un film imperfetto, ironicamente dark, sboccato, orgiastico, irriverente. E una scena con certe pillolette bianche, targate lemmon, con annessa strisciata e telefonata, che sarebbe potuta sfociare nel demenziale… ah, ragazzi, quella è una scena che nelle mani di Scorsese diventa la scena cardine, quella che non dimentichi più. «Posso strisciare come Skylar! Posso rotolare!»

La squadra di Wolfy (perché così si auto-ribattezza) non è da meno. C’è il Cervellone, lo Scaltro, il Cinese, il Depravato, il Tappetino. Anche loro sono penny stock, criminali da strapazzo ma il training di Belfort li fa mutare in un altro tipo di criminali, quelli senza scrupoli, che girano in giacca e cravatta e stanno ai piani alti. E che non conoscono limiti. «Era un manicomio. Una sagra dell’avidità, con parti uguali di cocaina, testosterone e fluidi corporei. Era indecente… in un modo normale». E il film ci restituisce con vividezza, forse troppa, tutti i colori di quella gabbia di matti, affetti da denaro-dipendenza. Roba, questa, che può darsi non abbia una cura. Anzi, proprio non ce l’ha. E Scorsese lo sa. Lo mostra. Con tutta la sua bravura.

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«Fuck you Usa!», Belfort/Di Caprio non può mollare la presa, neanche quando un incazzatissimo, integerrimo e provocato («Sai cos’è per me il tuo salario? Coupon per il divertimento!») agente dell’FBI si mette in testa di non dargli tregua. Allora la sfiga si abbatterà sul lupo ma non tanto da non trovare un piccolo spazio per un banchiere svizzero, un eccellente Jean Dujardin che, nei dialoghi, potrebbe gareggiare con il Christoph Waltz di Bastardi senza gloria (ve la ricordate la scena con lo scambio di battute tra nazisti e americani in italiano?). Qui la lotta è tra il francese e l’americano ma il pastrocchio linguistico è altrettanto efficace e forse più spassoso, con quell’«Americano, pezzo di merda!» (se avete vicino un cinema che lo proietta in originale… non esitate!). Anche il salvataggio made in Italy trova un posticino. E come non rimembrare certi Schettino/Concordia? «La cosa bella dell’essere salvati dagli italiani è che ti fanno mangiare, ti fanno bere vino rosso e poi ti puoi mettere a ballare». Scorsese ci prende forse un po’ in giro ma lo fa senza malizia. E diventa tutto fottutamente divertente.

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«Ehi Jordan, ti do un piccolo consiglio legale: chiudi quella cazzo di bocca!» Sarà in grado di farlo? Scopritelo da soli. «Per alcuni brevi momenti dimenticavo di essere stato ricco e di aver vissuto in un posto in cui tutto era in vendita». Ecco, appunto, sono soli brevi momenti. Perché, come ho anticipato nel titolo, qui il lupo non perde il pelo. Tantomeno il vizio. E speriamo anche Scorsese non lo perda, il vizio. Quale? Quello di fare bei film.

La necessità. È una cosa. Quella cosa. Che si crea.

«Vendimi… questa penna».

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