11 febbraio 2013
Il Teatro Argentina è costruito sopra le rovine del Teatro di Pompeo, uno dei più sontuosi edifici dell’antichità. Qui a Roma, negli ultimi duemila anni si è andati avanti così. Teatri sopra i teatri, ponti nuovi sopra quelli vecchi, chiese sopra i templi. S. Nicola sopra Giano, la Madonna sopra Minerva, e via sostituendo.
Il 5, nel pomeriggio, eravamo alla Sala Squarzina dell’Argentina per la presentazione del bel libro su Regina Bianchi di Maricla Boggio.
Ancora una sbirciatina all’architettura prima di procedere. La Sala Squarzina è uno dei più orripilanti esempi del gusto anni ’70. Sgraziatissima nelle proporzioni (come un altro ambiente di cui vi parleremo fra un attimo), perché troppo lunga, stretta e alta, è stata notevolmente peggiorata con la ristrutturazione. Ha un pavimento mortuario di marmo biancastro lucido, quattro enormi e incombenti grappoli di palle luminose, lampadari esagerati, tutto un lato aggravato da tre ballatoi sempre più sporgenti verso l’alto, con ringhiere di spirali metalliche che fanno pensare a un penitenziario, e l’altra parete infilzata da frammenti di mascheroni recuperati dal sottostante teatro romano, di bellissimo marmo di Carrara, che in tutto quell’orrore sembra polistirolo di Cinecittà.
L’altro ambiente, sopra citato, che aveva in partenza gli stessi squilibri di dimensione (troppo lungo, stretto e alto) è la Cappella Sistina, ma abbiamo la sensazione che, certo grazie all’impiego di maestranze più qualificate, il problema sia stato risolto meglio.
Torniamo alla presentazione. In tavola una portata di bei nomi: Ugo Gregoretti, Gabriele Lavia, Italo Moscati, che ha moderato e condotto efficacemente (qualche volta costretto a richiamare alla brevità un chiacchierone fuori controllo) l’incontro, e Mariano Riggillo. Oltre all’autrice, naturalmente, la più sobria di tutti nel parlare.
Ugo Gregoretti ha fatto ancora una volta sfoggio della sua arguzia infinita, dell’inesauribile aneddotica, di un uso di accenti e articolazione da vero attore, e di una sempre crescente civetteria nel portare l’età a scusante di qualche dimenticanza. Ha innescato un serpeggiare di risate quando ha ammesso il proprio rincoglionimento (testuale) di ultraottantenne. E’ uno dei pochi in circolazione che riesce a non essere mai noioso.
Altri interventi hanno aperto uno spiraglio su ciò che si scatena quando si dà il microfono a qualcuno del mondo dello spettacolo: il soggetto puntualmente apre con parole di lode per il collega o per l’opera in corso di celebrazione, per scivolare più o meno abilmente, ma implacabilmente, nel tema sul quale più di ogni altro è preparato: sé stesso.
Si è anche manifestata, appena camuffata, qualche forte spruzzata di insofferenza verso la vicenda ormai decotta del Valle occupato da più di un anno. Quando la rivoluzione mette le pantofole comincia a fare la muffa.
E poi c’è stato l’assolo di Gabriele Lavia. Un parlare pomposissimo con pause di esagerata estensione e di incongrua collocazione, usate, ci sembra, solo per creare un’aura di intellettuale compiacimento. Un’amica attrice, dalla sedia accanto ci ha bisbigliato che nell’ambiente le chiamano, per quanto sono vuote, le pause in cui si sentono passare i treni.
A noi invece hanno fatto venire in mente un famoso personaggio di Verdone: quel ragazzone mezzo suonato che ogni tanto si ferma a metà del discorso, rovescia gli occhi verso l’alto e annaspa in silenzio per riacchiapparne il filo.
Il libro su Regina Bianchi? La presentazione è stata interessante. Adesso lo leggiamo, e poi ve ne parleremo. Naturalmente dopo Sanremo, l’evento che sta per invadere le nostre vite per quasi una settimana.
Speriamo di farcela. A sopravvivere.
P.S. Appena in tempo. Stamattina, domenica 10, insieme al cappuccino ci arriva il paginone di Repubblica con una grande intervista a Gregoretti, di Antonio Gnoli, da dove vengono fuori ancora meglio tutte le sue arguzie, le ironie, e le spudorate verità a cui abbiamo accennato alcune righe fa. Ci è piaciuta. Un po’ meno il ritratto firmato da Mannelli, di solito eccellente illustratore e captatore dello spirito dei suoi soggetti, che questa volta, forse con l’intenzione di evidenziare la malizia di Gregoretti, deve aver sbagliato qualche linea, perché (guardate bene il disegno) le sopracciglia e gli occhi dietro le lenti anziché arguti a noi sembrano cattivi. Forse ci sbagliamo, ma ci pare di no.