In memoria di Stefano Tassinari

Narratore, giornalista, drammaturgo, autore radiofonico per Radio3 e direttore della rivista Letteraria. Un intellettuale organico, il Tas. [Checchino Antonini]

In memoria di Stefano Tassinari
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8 Maggio 2012 - 22.42


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di Checchino Antonini

Quando Carlo Lucarelli, dal palco del concertone del Primo Maggio, ha gridato «Ciao Stefano, vinceremo!», in pochi sapevano che salutava Stefano Tassinari, scrittore di 57 anni, autore del brano che era appena stato letto dallo stesso Lucarelli per ricordare le vittime degli omicidi bianchi. Tassinari era in un hospice oncologico nella campagna bolognese, un posto da cui raramente si torna. Il 25 aprile lo avevano circondato gli amici e i compagni, s’era cantato, suonato. Stefano ha mescolato il fumo della sua pipa al profumo del prato che circonda l’hospice.

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Se n’è andato stanotte, la stessa notte in cui – trentaquattro anni prima – fu ucciso Peppino Impastato, suo compagno in Democrazia proletaria. Ora quel titolo, “Il ricordo amaro di un’assenza”, il racconto letto dal giallista bolognese a San Giovanni vale anche per questo intellettuale ferrarese, «cuoco strano e tifoso della Spal», come si legge nella poesia del suo amico Claudio Lolli scritta in tempi non sospetti, otto anni fa, senza l’urgenza di attimi come questi in cui i ricordi si intorbidiscono con le parole che non s’erano ancora dette, con le incombenze dei riti del commiato.

Giovedì verrà salutato con una cerimonia laica a Palazzo D’Accursio, il municipio di Bologna, dalle 9 alle 18. La Compagnia del teatro dell’Argine curerà un reading dalle 16 e tutti i suoi amici musicisti sono stati invitati a dedicargli un brano. Si canterà L’Internazionale, la versione di Franco Fortini. Tra Ferrara, dov’è nato, poi Roma e Bologna, Tassinari non avrebbe mai separato il lavoro politico da quello culturale. Non ci sono molti scrittori, in questo esordio di secolo, per i quali valga la qualifica di intellettuali organici come vale per il “Tas” che ha attraversato da militante gli anni ’70, scrivendo sul Quotidiano dei Lavoratori, parlando ai microfoni di Radio Città Futura, vent’anni prima che questa emittente romana diventasse un juke box stravagante con notiziari frettolosi e prudenti.

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Negli anni Novanta e fino a un attimo prima di morire, la sua militanza è stata scandita dalla narrativa e dalla presenza sulla scena pubblica come organizzatore di rassegne teatrali e letterarie, giornalista, drammaturgo, autore radiofonico per Radio3, fondatore del Premio Volponi e militante di base di Rifondazione comunista. Tutto questo è stata la sua declinazione di lavoro culturale. Sarà lui, ad esempio, a organizzare col sindacato scrittori di Bologna il primo dibattito pubblico sul caso Aldrovandi a pochi giorni dalla denuncia di Patrizia, la mamma di Federico, dell’insabbiamento dell’inchiesta.

Ogni parola che ha scritto era pensata per una lettura pubblica, a voce alta, per un uso civile della letteratura, del teatro, del giornalismo, della memoria. Perché il personale è politico, per gente come lui. E la politica è cercare di cambiare il mondo e le scritture servono a resistere e a contrattaccare, a stabilire ponti con i propri simili. E Letteraria, la rivista che dirigeva da tre anni per conto delle edizioni Alegre, serviva a questo: rompere la compiaciuta solitudine autoriale per un confronto permanente sulla letteratura sociale.

Con lui, in questa avventura, Carlo Lucarelli, Angelo Ferracuti, Massimo Carlotto, Wu Ming, Marcello Fois, Pino Cacucci, Massimo Vaggi, Mariarosa Cutrufelli, Bruno Arpaia, Marco Baliani, Mauro Covacich, Milena Magnani, solo per citarne alcuni. Nomi che ricorreranno, spesso, anche nelle raccolte di racconti che Tassinari si inventava per le edizioni Alegre – da “Sorci verdi” in cui ha tenuto insieme gli autori che la Lega voleva ostracizzare dalle biblioteche padane fino al recentissimo “Lavoro vivo” da cui è tratto il racconto letto da Lucarelli, un volume pensato assieme alla Fiom e che sarà presentato – ricordando il Tas – alla Fiera del libro di Torino domenica prossima alle 13.

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La sua rivista lo ricorderà a Roma, dal 23 al 25 maggio, nell’ambito del Festival della letteratura sociale alla Sapienza. Probabilmente, il ricordo prenderà la forma di un reading collettivo dei racconti che compongono “D’Altri tempi”, una raccolta uscita nel 2011 con cui le edizioni Alegre aprivano la collana di “Scritture resistenti” seguendo le stesse piste delle collane d’inchiesta e di teoria: i movimenti reali, i conflitti, i pensieri eretici. Le piste di Tassinari.

«Fino al decennio iniziato nel ’68 in questo Paese non esistevano diritti né civili né sindacali, ma in compenso il nostro codice prevedeva ancora il delitto d’onore e il reato di adulterio femminile, così come si votava a ventun anni e si andava in galera a diciotto, si veniva arrestati per obiezione di coscienza al servizio militare o per detenzione di un grammo d’hashish, c’erano le gabbie salariali tra nord e sud e tra uomini e donne, nei manicomi si “curava” la gente a colpi di elettrochoc, licenziare un lavoratore era un gioco da ragazzi»: ecco, la scrittura di Stefano, spesso, è servita a ricostruire le tracce cancellate da chi ha scritto la storia in nome dei vincitori.

Gli “altri tempi” erano per lui quelli da vivere non quelli alle spalle. Non c’è scrittore per il quale calzi meglio l’intento programmatico di Esenin “strappare la gioia ai giorni futuri”. Così è stato in tutti i suoi romanzi (editi da Tropea). Contro reducismi e revisionismi. Nell’“L’ombra del ritorno” c’è la vicenda di un partigiano ostracizzato prima e dopo la Liberazione per via delle sue posizioni antistaliniste; in “I segni sulla pelle” c’è dentro Genova e il G8, “L’amore degli insorti” è, come il primissimo “L’assalto al cielo”, un’incursione negli anni ’70, in particolare lo scontro drammatico tra chi scelse la clandestinità e chi difendeva il valore di una lotta politica giocata alla luce del sole, senza ambiguità, fino a “Il vento contro”, struggente ricostruzione degli ultimi giorni di Pietro Tresso, militante trockista italiano ucciso in Francia da sicari stalinisti.

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L’«immenso edificio del ricordo» di Proust, piuttosto, l’avrebbe assalito, uno come Stefano, come ogni altro Palazzo d’Inverno. In quella che forse è stata l’ultima intervista, un mese fa a una radio bresciana, il Tas spiegava di non credere che tutto sarebbe sparito con la morte. Il ricordo deve servire – raccomandava all’intervistatrice – a quel bisogno di cambiamento, vivo oggi come allora. «Stefano – riprende la poesia di Lolli del 2004 – se tu sapessi quanto mi ha dato la tua vita…».

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