Genovese? Regista di un crimine che ha rubato il futuro ai giovani
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Genovese? Regista di un crimine che ha rubato il futuro ai giovani

Le motivazioni della sentenza che ha condannato a 11 anni di carcere l'ex deputato del Pd poi andato a Forza Italia

Dinastia dei Genovese
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19 Gennaio 2018 - 10.29


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Sostanzialmente un delinquente. Meglio, regista di una azione criminale che ha rubato il futuro ai giovani. In 500 pagine per Francantonio Genovese un atto d’accusa pesantissimo. Le 500 pagine sono quelle delle motivazioni della sentenza che gli ha dato 11 anni di carcere. Genovese, ex deputato pd, e dopo l’avvio delle vicende giudiziarie passato sotto l’ala protettiva di Berlusconi., come si sa, recentemente non ha avuto rossore e ha fatto entrare il suo giovane figlio nel parlamento siciliano, strappandolo aglòi studi della Luiss. Appena entrato all’Assemblea regionale, il giovane Genovese è stato chiamato a rispondere dai magistrati di alcune cose. Buon sangue non mente. Dicevamo delle motivazioni. Si legge di una “sistematica quanto capillare depredazione di risorse pubbliche”, attraverso “una attenta regia delinquenziale”, che ha finito col privare “migliaia di giovani disoccupati” della “speranza di trovare occupazione”. Sintesi lapidaria di centinaia di motivi per condannare Genovese.
Dunque, cinquecento le pagine, firmate dai giudici della prima sezione penale del tribunale di Messina (Maria Pina Scolaro, Massimiliano Micali e la presidente Silvana Grasso), in cui si motiva punto per punto la condanna nei confronti del parlamentare uscente – e di altri 19 imputati, tra i quali il cognato Franco Rinaldi (due anni e sei mesi) – per i reati di associazione a delinquere, riciclaggio, frode fiscale, truffa e tentata estorsione (quest’ultima ai danni dell’ex dirigente regionale Ludovico Albert). Motivazioni che sono occasione, per i giudici messinesi, di un’attenta disamina del sistema della formazione professionale, non senza una bacchettata, ribadita più volte, al sistema di controlli della Regione, definiti “assolutamente inadeguati”.
L’nchiesta ha portato a due processi, ma quello per il quale si sono pronunciati – “Corsi d’oro 2” – è in sostanza il secondo capitolo di “Corsi d’oro 1”, perché “la maggior parte delle fattispecie delittuose in contestazione sottendono una matrice comune”. Un unico scopo, la sottrazione di denaro pubblico, 43 milioni di euro, attraverso “un meccanismo criminale nel quale l’ente di formazione (e in particolare l’Aram e la Lumen) depauperato della nobile funzione che in teoria ne avrebbe dovuto guidare l’azione (ossia consentire, in una realtà economicamente depressa quale quella siciliana, ai giovani disoccupati di acquisire professionalità da spendere nel mondo del lavoro) è divenuto il canale per garantire l’arricchimento di pochi”.
“Le ragioni di ciò appaiono fin troppo evidenti – si continua a leggere – Non è il desiderio di offrire una speranza di occupazione alle migliaia di giovani disoccupati che, di regola privi di un personale bagaglio formativo, hanno intravisto nei corsi di formazione una concreta possibilità di riscatto, non è il perseguimento di alcun fine nobile. L’ente di formazione è, per un verso, un imponente bacino cui attingere consenso elettorale (ciò vale all’evidenza per l’imputato Genovese) e, per altro verso, solo lo strumento per appropriarsi di denaro pubblico”.
E poi, le pressioni a Federico Albert, all’epoca dirigente generale della Formazione professionale. Per questo, Genovese è stato infatti condannato in primo grado anche per tentata estorsione. “Di fronte alle sue resistenze di assecondare la richiesta di intervenire sulla graduatoria in favore della Training Service – si legge nella ricostruzione dei magistrati – Genovese gli disse: ‘ti dovremo attaccare a 360 gradi’”. Parole che hanno trovato pieno riscontro nelle dichiarazioni rese dall’imputato Salvatore La Macchia”, che ha “confermato integralmente”.
Nelle 500 pagine appena depositate c’è anche un passaggio su repubblica. E lo stesso Repubblica, nelle pagine palermitane, a ricostruire l’accaduto, un’intercettazione. A parlare sono Franco Rinaldi e la moglie Elena Schirò, poco dopo le prime notizie riguardo all’inchiesta sulla Formazione che avevano riguardato Schirò, che per questo decise di dimettersi. È il 12 dicembre del 2012, Rinaldi si rivolge così alla moglie: “Senti, siccome ho quelli di Repubblica…mi rompono i coglioni…”. E lei risponde: “Allora, Franco, dici che io mi sono dimessa da legale rappresentante”.

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